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venerdì 22 giugno 2018

JOE KIDD

166_JOE KIDD  Stati Uniti, 1972;  Regia di John Sturges.

Joe Kidd è un film della Malpaso, la casa di produzione di Clint Eastwood, che ne è anche l’attore protagonista, quel Joe Kidd, appunto, a cui è intitolato il lungometraggio. E’ quindi evidente che tutto ruoti intorno alla figura dell’attore, ormai giunto ad essere una autentica icona di Hollywood. Nello specifico del cinema western, si può azzardare che Clint Eastwood rappresenti per il western crepuscolare quello che il mitico John Wayne era per quello cosiddetto classico. Il regista di Joe Kidd è il valido John Sturges, ovvero proprio colui che forse sancì la nascita della fase crepuscolare del genere, con I magnifici sette, ma in questo specifico caso sembra limitarsi ad una direzione onestamente professionale, lasciando campo libero all’istrionico attore. E Eastwood la ribalta se la prende in modo evidente, occupando il centro della scena con fare compiaciuto: del resto si tratta di un attore che ha visto la sua consacrazione con gli spaghetti-western di Sergio Leone, e quindi è naturale, per il suo personaggio,ormai divenuto una sorta di maschera abituale, atteggiarsi un po’ sopra le righe. Cosa che, peraltro, Eastwood fa con innata classe, e che lo rende appunto un’icona del cinema; una di quelle figure immediatamente riconoscibili pur passando da un film all’altro. Il film in questione, Joe Kidd, si inserisce nel filone del western revisionista, una delle correnti più rilevanti del tardo-western, ovvero di quella rilettura cinematografica degli eventi legati alla conquista del west che permetteva, al contempo, agli autori una critica verso la politica imperialista degli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70. Se era d’abitudine, per questo tipo di pellicole, riconsiderare le ragioni degli indiani condannando l’opera invasiva dei coloni bianchi, in questo caso ci si spinge oltre. 

Perché da sempre, anche ai tempi del cinema western classico, la contrapposizione era tra Natura (rappresentata dai pellerossa) e Cultura (intesa come progresso, ovvero la civiltà dei bianchi): gli indiani avevano la capacità di vivere in armonia con la Natura, di contro i bianchi erano ambasciatori di una civiltà più evoluta, più progredita e che reclamava le risorse naturali per un migliore (nel senso di più redditizio) sfruttamento. Erano due modi diversi di intendere la vita, e quindi difficilmente paragonabili: se gli indiani potevano vantare le ragioni di essere precedentemente stanziati nelle terre contese, era anche evidente che il modo in cui le gestivano lasciava il campo alle obiezioni opportunistiche degli invasori. Tutto questo non c’è in Joe Kidd ma, essendo un western del 1972, gli autori li considerano elementi risaputi. 

E quindi spiazzano completamente lo spettatore, introducendo un’ulteriore variabile: i messicani. Sinola è un piccolo paese al confine tra Messico e Stati Uniti, e i peones messicani erano i vecchi proprietari terrieri; nel film si apprende che gli americani hanno sottratto loro le proprietà con stratagemmi illegali come incendiare i vecchi archivi dove erano tenuti i precedenti certificati di proprietà, che attribuivano appunto la stessa terra ai messicani ivi residenti. Cade quindi anche il primato civile degli yankees, con il quale giustificavano, almeno a se stessi, l’aver usurpato i terreni agli indiani; se i pellerossa non erano usi appropriarsi della terra (e in quel senso si poteva intendere che essi la lasciavano libera), questo non valeva per i messicani di questo lungometraggio che, al contrario, avevano operato con i crismi della cultura burocratica di derivazione europea. 

E, nonostante questo, vengono defraudati ugualmente dagli americani, verso i quali la critica di questo contro-western risulta quindi particolarmente acuta. L’aspetto giuridico della vicenda è rimarcato dalle scene nell’aula del tribunale: locale che, nell’incipit del film, è il centro d’attrazione e nel quale l’intera vicenda si chiude. La storia ha quindi una spiccata impronta politica (non faziosa come altre dello stesso filone, ma comunque ben presente) eppure Eastwood, sebbene mantenga costantemente il centro del ring, non sembra voler farsi particolarmente coinvolgere da questi aspetti sociali, conservando, almeno apparentemente intatta, la sua indole individualista. Ma il finale, nel quale dalla sedia più importante del tribunale uccide a sangue freddo il cattivo di turno, Frank Harlan (Robert Duvall), non lascia dubbi: Eastwood incarna ancora il suo tipico anti-eroe, quel Dirty Harry di Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! per intenderci, giudice e boia allo stesso tempo. Ma a non tutte le ciambelle il buco viene centrato e il mezzo sorriso, un po’ fuori luogo, con cui saluta la morte del rivale, certifica che il cortocircuito tra spietato risolutore di problemi e dispensatore di giustizia fatica, in questo caso, a funzionare al meglio. 



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