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sabato 9 dicembre 2017

DEAD MAN WALKING - CONDANNATO A MORTE

56_DEAD MAN WALKING - CONDANNATO A MORTE (Dead Man Walking) Stati Uniti, 1995;  Regia di Tim Robbins.

Dead man walking: letteralmente morto che cammina, o uomo morto in marcia, come viene tradotto nel film. Ma, in sostanza, questa espressione può essere considerata un ossimoro ad essere generosi; i morti non camminano: si tratta di una contraddizione di termini, e di cattivo gusto, per giunta. Prima di tutto perché spettacolarizza, in un certo senso, qualcosa che dovrebbe invece, al massimo, mantenersi sobrio: si tratta comunque di un uomo che deve essere giustiziato, e la Giustizia non può in nessun modo concedere nulla allo spettacolo, se vuole essere credibile. Secondariamente, si può leggere forse un infido tentativo di deresponsabilizzare i boia e gli esecutori, affermando che l’uomo avviato all’esecuzione capitale sia già morto (dead man, appunto): e no, cari signori, il condannato è ben vivo e sarà l’opera degli addetti a togliergli la vita; al di là del grado di responsabilità di queste persone, si tratta di un dato di fatto. Questi concetti sono generali, e forse possono sembrare poco attinenti all’eccezionale film di Tim Robbins, ma sono gli stessi che permeano la sua opera. Innanzitutto anche il film di Robbins riesce ad accostare temi e argomenti difficilmente avvicinabili: la capacità di coniugare la critica alla pena di morte con la descrizione senza sconti dell’odioso colpevole è sorprendente tanto quanto l’affermazione di un uomo morto che possa camminare. Ma la cosa ancora più spiazzante, è come Robbins riesca a fare ciò senza scivolare mai nella retorica o nella faziosità. Come può esserci riuscito, un autore tutto sommato non così esperto come Robbins, che è solo alla seconda regia? 
Beh, il Robbins uomo di cinema è prevalentemente un attore, e quindi si affida a due interpreti d’eccezione, la moglie Susan Sarandon e Sean Penn. Se Penn è formidabile nel tratteggiare un odioso e strafottente disadattato, che scava scava, ritroverà in extremis almeno un eco della propria umanità, la Sarandon si carica letteralmente la storia sulle spalle, e la porta avanti, con fatica, tra i dubbi e le incertezze, ma con un indomito senso del dovere. Il personaggio di suor Helen (interpretato dalla Sarandon, appunto) è costretta ad andare avanti a fronte di tutti schermi, le griglie, le porte, che nel film ostacolano ogni rapporto, ogni confronto umano, e non solo nei dialoghi col condannato, ma anche nelle visite ai parenti delle vittime. 
E’ il senso del dovere che spinge la donna, e il suo essere suora in borghese la pone senza alcun apparente supporto materiale: non ha ovviamente rapporti umani che siano in qualche modo legati e cementati dalla sfera sessuale (marito, amante, ma anche figli naturali), e, senza l’abito religioso, è come se fosse, in un certo senso, senza armatura. Agli occhi di Poncelet (il personaggio interpretato da Sean Penn) è semplicemente una donna, per non dire una femmina, e infatti il condannato in un primo momento ci prova, per quanto gli sia possibile. Lo stesso cappellano del carcere stigmatizza l’abitudine della donna a presentarsi in borghese, interpretandola come una mancanza (spoliazione) di rispetto verso l’autorità. E invece la vera forza di suor Helen è proprio il suo essere donna senza difese se non la forza di volontà di comprendere, di condividere, di amare il suo prossimo, chiunque esso sia. 
La Sarandon è straordinaria, e meritatissimo premio Oscar per questo suo ruolo, perché riesce a rendere quasi tangibile, non solo evidente, come sia la sola forza dell’amore che le permetta di andare avanti contro tutto e contro tutti, contro i parenti delle vittime, contro i suoi abituali assistiti, contro l’odiosità di Poncelet, contro i suoi stessi dubbi. Il senso del dovere incontra l’amore, questo potrebbe essere un controtitolo a quest’opera, e come quello ufficiale mette insieme termini antitetici: al cuor non si comanda, recita infatti il proverbio, proprio perché sembra impossibile associare il concetto di amore con obbligo o dovere.


Ma è proprio così: non è questione di scelte, non abbiamo scelta, abbiamo solo il dovere di amare il nostro prossimo, che non vuol dire deresponsabilizzarlo, o evitargli le pene, ma piuttosto aiutarlo a farsi carico dei frutti delle proprie azioni. Ma, a parte questo potente messaggio di amore, ce n’è un altro assai più critico: mai e poi mai, uno Stato, un’istituzione sociale, dovrebbe essere assimilabile nel comportamento ad un rozzo, volgare e banale disadattato.
Invece, nel finale, i corpi delle vittime di questa storia sono mostrati dall'obiettivo della mdp di Robbins, e di fronte alla morte appaiono tutti uguali: la coppia di ragazzi uccisi da Poncelet e dal suo compare, sul luogo dell’efferato delitto; e poi lo stesso criminale sul letto dell’iniezione; tutti nella stessa cristologica posizione . Ma, allora, se della storia paragoniamo tra loro le vittime (degli omicidi e della condanna a morte), possiamo farlo con anche con i carnefici: e al fianco di Poncelet finisce quindi lo Stato, e tutti coloro che permettono una barbarie come al pena di morte.
E Matthew Poncelet, il razzista, stupratore e assassino, può alla fine essere considerato come un cristo degno di una simile comunità.


Susan Sarandon





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