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lunedì 4 dicembre 2017

DILLINGER E' MORTO

51_DILLINGER E' MORTO.  Italia, 1969;  Regia di Marco Ferreri.

Dio è morto è un noto aforisma di Nietzsche; nel film di Marco Ferreri non è invece l’Altissimo ad essere messo in discussione, ma il famoso gangster americano John Dillinger. Per quale motivo la morte di un bandito di un altro paese viene messa al centro dell’attenzione dal regista milanese in questo suo film? Il gusto grottesco, dissacratore, provocatorio di Ferreri è ormai noto, ma in questa sua opera l’autore appare decisamente ermetico. Nel film Dillinger è morto, infatti, assistiamo alla giornata dopo-lavorativa tipo di un ingegnere industriale, che torna a casa e si dedica alle consuete attività: saluta la moglie, che è a letto con il mal di testa, da’ un’occhiata alla  televisione, si prepara una cena, guarda i filmini delle vacanze, va ad importunare la domestica. E già qui potremmo notare come, nelle normali attività di un uomo sposato, venga fatta passare dal regista l’idea di flirtare con una ragazza che vive quotidianamente sotto lo stesso tetto della moglie. Però il punto più importante per trovare una traccia da seguire e decifrare qualcosa di questo Dillinger è morto,  è il rapporto del nostro protagonista, tal Glauco (Michel Piccoli) con la visione di immagini in movimento: quando guarda la televisione è particolarmente attratto dalle ragazzine intervistate, arrivando a toccare il teleschermo per simulare in qualche modo il contatto fisico; i filmini delle vacanze che si proietta in seguito lo riguardano e lo coinvolgono invece direttamente. A vederlo mentre osserva gli schermi, Glauco sembra quasi voler entrare nelle immagini, che tra l’altro poi, ad un certo punto, diventano esse stesse il film che stiamo vedendo. 
Ma allora siamo in campo metalinguistico e il Dillinger del titolo non è tanto il bandito, quanto un simbolico protagonista dei film di gangster; e si sa che i gangster movie sono uno dei capisaldi del cinema hollywoodiano. Ecco quindi che la trama senza trama del film prende una sua logica: il cinema, inteso come narrazione di una storia per imbonire le masse, è morto, è finito, è ormai inutile; questo sembra dirci Ferreri. Nel suo lungometraggio, il regista ci mostra una storia senza senso, una routine legata ai consueti riti dell’uomo contemporaneo, come prepararsi la cena o guardare la televisione, che viene interrotta dal ritrovamento di un pacco. Il pacco è avvolto in vecchi fogli di giornale, sui quali compare la notizia che ‘Dillinger è morto’, e al suo interno si trova una vecchia pistola arrugginita. 
Con un’applicazione da perfetto fai-da-te tipicamente borghese, Glauco smonta il revolver e lo olia a puntino, poi lo rimonta e ne verifica i meccanismi. Fino a qui, l’ingegnere si è comportato da ingegnere, appunto, e a fronte di un antico prodotto della tecnica, si è sentito in dovere di ripristinarne e verificarne l’efficienza. Poi subentra la vera cifra stilistica del film e, in modo del tutto incomprensibile, Glauco dipinge di rosso a pois bianchi la pistola, senza per altro comprometterne il funzionamento. A questo punto siamo ormai in piena vena onirica e folle di una storia che, per paradosso, mostra quello che in realtà è il sogno dell’uomo moderno. 
Certo, si vive anche bene con un buon lavoro, una bella moglie, e la coscienza accondiscendente che permette senza problemi qualche scappatella; ma quello che si desidera veramente, è mandare letteralmente tutto al diavolo (in primis la moglie, con tre colpi di pistola in testa) e fuggire verso un’isola in mezzo all’oceano, alle dipendenze di una dispotica ma avvenente ragazzina.
E in fondo, come dare torto a Ferreri?     






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