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lunedì 11 dicembre 2017

LA FOSSA DEI SERPENTI

58_LA FOSSA DEI SERPENTI (The snake pit) Stati Uniti, 1948;  Regia di Anatole Litvak.

Pare che nell’antichità, almeno stando a quanto appreso nel finale del film, ci fosse l’usanza di mettere i pazzi in un pozzo con i serpenti, per creare uno choc nella mente del malato; è da lì che prende il titolo l’opera di Anatole Litvak, La fossa dei serpenti. Non che le cose, almeno stando a quanto mostrato dal lungometraggio, siano nei secoli molto cambiate: i malati di mente (o meglio in questo caso, le malate, visto che il film è ambientato in un istituto femminile) sono trattate con cura dai dottori, ma i loro problemi paiono ineludibili: legati sia alla convivenza con gli altri pazienti, sia col personale infermieristico, senza dimenticare i conti da fare con il lato amministrativo della struttura. In sostanza Litvak non fa una critica generalizzata o demagogica: la medicina funziona e opera per il bene del paziente, ma la società fatica a mettere poi in pratica gli sforzi dei dottori, vuoi per le difficoltà interpersonali (quelle che incontrano le infermiere sia per le condizioni delle pazienti che per le loro eventuali carenze professionali) vuoi per la gestione dei costi (il direttore della struttura vorrebbe infatti dimettere la protagonista del film prima della sua completa guarigione per ottimizzare le spese). Il risultato di queste forze è, purtroppo, un luogo come il Juniper Hill Hospital, dove Virginia (una bravissima Olivia de Havilland) è ricoverata: una sorta di via di mezzo tra una prigione, un campo di concentramento e un istituto di cura.
Il paragone fatto esplicitamente nel film è, abbiamo detto, con una fossa di serpenti, ma l’idea dei reparti numerati progressivamente richiama piuttosto i gironi danteschi dell’inferno. Nonostante questo quadro disarmante, Litvak procede con estrema circospezione, senza eccessi ma senza cedimenti, e il suo resoconto è impietoso e senza sconti. La condizione in cui sono tenuti i malati di mente è inaccettabile e purtroppo credibile, perché il regista mostra sempre la capacità di non lasciarsi prendere la mano dalla critica generalizzata o di bassa lega. Virginia, a cui la de Havilland conferisce una superba e assai sfaccettata personalità, è davvero mentalmente disturbata, e quindi necessita delle cure che poi, in un modo o nell’altro, riceve. 

Certamente dal punto di vista medico o psicoanalitico il film presenta delle semplificazioni, ma naturalmente l’opera non è un trattato di medicina. Non è nemmeno un documentario; quindi non è tanto lecito chiedersi se queste siano le reali condizioni dei malati di mente negli istituti di cura. Quello che ci mostra con grande maestria il bravissimo regista di origine ucraina è cosa può succedere (e probabilmente succede) in simili condizioni: pur nelle migliori intenzioni, affrontare difficoltà come la cura di pazienti con disturbi mentali, può facilmente portare a situazioni come quelle efficacemente mostrate nell’opera.
Si dice che la strada per l’inferno sia lastricata di buone intenzioni; 
probabilmente anche quella per gli istituti di cura.



Olivia de Havilland




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