206_SOLDATO BLU (Soldier blue). Stati Uniti 1970; Regia di Ralph Nelson.
All’inizio di Soldato
blu, film del 1970 di Ralph Nelson, siamo in attesa che un convoglio dell’esercito
degli Stati Uniti parta per Fort Reunion. Stiamo aspettando che il comandate
dei soldati finisca i suoi bisogni fisiologici nella latrina: riferimento
scatologico che è un classico espediente narrativo, ma anche simbolico, del western crepuscolare; e il ritardo
accumulato per colpa dell’ufficiale sembra confermare alla lettera l’appartenenza del film
all’altrimenti cosiddetto tardo-western. Ma poi, quando la colonna di
soldati si mette in marcia, e la macchina da presa allarga la visuale sui
consueti spettacolari paesaggi del west, nella colonna sonora irrompe un
entusiasmante tema musicale (che poi non tornerà più, nel lungometraggio) tipico
dei film western degli anni cinquanta, i cosiddetti classici. Ma allora, Soldato
blu è un western crepuscolare o classico? Per quel che valgano le
etichette, che sono solo strumenti per capire meglio cosa stiamo vedendo, né
uno né l’altro, visto che in genere il film di Nelson è ricordato per essere la
bandiera del western revisionista,
ovvero quello che comunemente (e superficialmente) si ritiene desse una
rilettura filo indiana alla storia
del west. In questo caso la definizione, se vogliamo tenerla buona, deve essere
intesa più negli intenti del messaggio,
che non nella sua forma, e quindi, cinematograficamente parlando, sembra
davvero un’etichetta posticcia.
Dal punto di vista della sua composizione, Soldato blu è un film ibrido, lo abbiamo in parte già visto in partenza ma prosegue su questa linea: un po’ commedia e un po’ storia d’amore, d’ambientazione western e, per gradire, spruzzate di violenza degne di uno snuff-movie; il tutto condito da un messaggio politico almeno in parte facilmente intuibile ma comunque dichiarato programmaticamente dal regista. Le didascalie che aprono e chiudono il film fanno riferimento al massacro del Sand Creek ma Nelson dichiarò che i riferimenti d’attualità andavano cercati nella strage di My Lay, operata dai marines nel Vietnam nell’anno1969.
In effetti, tanto per rinfrancare questo tema dello
sfasamento, nel film il soldato blu protagonista, (Peter Strauss nei panni
del soldato Honus), ad un certo punto spara ad una capra ma colpisce una lepre;
il che, se vogliamo, conferma l’idea che Nelson ci mostri gli indiani per
parlarci dei vietcong. In ogni caso, pur se animato di lodevoli intenzioni, il
regista fatica un po’ ad essere convincente: o meglio, lo è anche troppo, ma
questo può alla fine insospettire lo spettatore non necessariamente disposto ad
indignarsi un tanto al chilo.
Perché qualche passaggio della sua storia fa acqua e questo non è mai un bene: i Cheyenne di Lupo Pezzato aprono il film massacrando senza alcuna pietà la colonna di soldati di cui si diceva prima; nel finale c’è la controffensiva americana con i militari decisi a vendicare i caduti: il capo indiano si scopre però d’incanto pacifista e va in avanscoperta con tanto di drappo bianco e bandiera a stelle e strisce, naturalmente ignorata dai bellicosi soldati.
Va bene che si vuol sottolineare la tipica mancanza di lealtà dell’esercito degli Stati Uniti, ma il passaggio narrativo è eccessivamente infantile, e gioca tutte le sue carte sull’immediatezza dell'indignazione instillata nello spettatore, nella speranza che si dimentichi di quanto successo all’inizio del film. Non che si debba giustificare la vendetta, sia chiaro, ma semplicemente un capo indiano bellicoso come Lupo Pezzato (che compie un’autentica strage), avrebbe saputo che non basta inforcare la stars and stripes avanzando come un babbeo in tutta tranquillità per sistemare le cose.
L’operazione di Nelson è quindi, nel suo complesso, troppo approssimativa: vorrebbe raccontare la verità (come si legge in una didascalia ad inizio film) ma non è credibile nemmeno come racconto di finzione.
Dal punto di vista della sua composizione, Soldato blu è un film ibrido, lo abbiamo in parte già visto in partenza ma prosegue su questa linea: un po’ commedia e un po’ storia d’amore, d’ambientazione western e, per gradire, spruzzate di violenza degne di uno snuff-movie; il tutto condito da un messaggio politico almeno in parte facilmente intuibile ma comunque dichiarato programmaticamente dal regista. Le didascalie che aprono e chiudono il film fanno riferimento al massacro del Sand Creek ma Nelson dichiarò che i riferimenti d’attualità andavano cercati nella strage di My Lay, operata dai marines nel Vietnam nell’anno
Perché qualche passaggio della sua storia fa acqua e questo non è mai un bene: i Cheyenne di Lupo Pezzato aprono il film massacrando senza alcuna pietà la colonna di soldati di cui si diceva prima; nel finale c’è la controffensiva americana con i militari decisi a vendicare i caduti: il capo indiano si scopre però d’incanto pacifista e va in avanscoperta con tanto di drappo bianco e bandiera a stelle e strisce, naturalmente ignorata dai bellicosi soldati.
Va bene che si vuol sottolineare la tipica mancanza di lealtà dell’esercito degli Stati Uniti, ma il passaggio narrativo è eccessivamente infantile, e gioca tutte le sue carte sull’immediatezza dell'indignazione instillata nello spettatore, nella speranza che si dimentichi di quanto successo all’inizio del film. Non che si debba giustificare la vendetta, sia chiaro, ma semplicemente un capo indiano bellicoso come Lupo Pezzato (che compie un’autentica strage), avrebbe saputo che non basta inforcare la stars and stripes avanzando come un babbeo in tutta tranquillità per sistemare le cose.
L’operazione di Nelson è quindi, nel suo complesso, troppo approssimativa: vorrebbe raccontare la verità (come si legge in una didascalia ad inizio film) ma non è credibile nemmeno come racconto di finzione.
Del resto, come potrebbe esserlo un film che mette in centro
della scena, e perfettamente a suo agio tra serpenti e indiani ostili, una
moderna modella bella, alta, bionda come Candice Bergen?
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