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giovedì 2 settembre 2021

LA REGINA D'AFRICA

882_LA REGINA D'AFRICA (The African Queen)Stati Uniti, Regno Unito, 1951; Regia di John Huston.

Forse, la qualità migliore di John Huston era che si divertiva a fare il suo lavoro e questo finiva per vedersi nelle sue opere che hanno e danno spesso una sensazione di piacere, nel loro svolgersi. Intendiamoci, fatta premessa che Huston era un maestro nella regia, perché anche Ed Wood sicuramente lavorava con passione ma con risultati, pur rispettabili nel loro ambito, diametralmente opposti. No, Johnny Huston era sempre quello a cui Howard Hawks, probabilmente l’eminenza grigia assoluta ad Hollywood in materia produttivo/realizzativa, aveva consigliato come mettere in scena Il Falcone Maltese: limitati a mettere sullo schermo quello che Dashiell Hammett ha scritto. O pensi di saper scrivere meglio di Hammett? Ecco, la cifra stilistica di Huston parte da qui, da questa semplicità programmatica su cui l’autore si divertiva spesso ad azzardare, usando uno stile istrionico che, partendo da quella solida base, non finiva mai completamente fuori giri. Prendiamo La Regina d’Africa: è un film bellico o è una satira contro la guerra? E’ una commedia o un film d’avventura, e quindi la guerra funge solo come ambientazione? E’ difficile stabilirlo perché, ad esempio, per essere un’opera satirica La Regina d’Africa è troppo avvincente, è troppo ben costruito sulla traccia avventurosa, anche se l’autore evidentemente strizza più volte l’occhio allo spettatore (operazione di cui si incarica Humphrey Bogart coi suoi borbottii) per l’improbabilità di quanto mostrato. Certamente La Regina d’Africa è un film che, nonostante le durissime tribolazioni dovute all’ambientazione africana, Huston si divertì a girare ottenendo un’opera appunto divertente anche da guardare, oltre che un vero capolavoro. 

E la statura a capolavoro La Regina d’Africa la raggiunge grazie alla prima qualità di Huston, la semplicità di approccio. I meriti del regista nello specifico sono molteplici, sia chiaro, nella scelta della storia, dell’ambientazione, delle opzioni registiche adottate, del cast ma, una volta preso Katharine Hepburn (nel ruolo di Rose Sayer) e Humphrey Bogart (in quello di Charlie Allnut) bisogna semplicemente lasciarli fare. Rose e Charlie, i due personaggi, erano antitetici allo stesso modo di quanto lo fossero gli interpreti; e su questa contrapposizione, che si somma alle altre e a quella della guerra, la suprema tra tutte le contrapposizioni terrestri, si fonda il tema del film. Va detto che Huston era uno onesto, di un’onestà che sembra quasi cinica tanto è vera e coerente con la realtà, e il suo film non è affatto un’opera banalmente pacifista. Intanto perché finisce con una gloriosa azione bellica, per quanto burlesca, ma soprattutto perché mostra come il conflitto arrivi a scombinare un ordine che non era poi così armonico. 

E’ semmai la difficoltà estrema introdotta dalla guerra a permettere ai due personaggi un’evoluzione seria e costruttiva, condita anche dal sentimento più ovvio nella circostanza, quello amoroso; che Huston, si è detto, rimane sempre un autore semplice. Ma naturalmente lo è nel senso nobile del termine: classico, insomma. A riprova che la situazione prebellica non fosse tutto questo idillio c’è la spassosa e simbolicissima scena della funzione religiosa nella missione del reverendo Sayer (Robert Morley). La cacofonia inascoltabile che né la sua voce né il pianoforte suonato da sua sorella Rose riescono ad armonizzare è frutto dei canti scombinati dei fedeli, uomini e donne di quel villaggio dell’Africa Orientale. L’arrivo di Charlie, che aziona ripetutamente la stridula sirena dell’African Queen, la sgangherata barca che dà il nome al film, unisce un altro suono fastidioso allo sciagurato concerto. E in fatto di suoni inopportuni Charlie farà anche peggio quando verrà invitato a bere il tè da Samuel e Rose: il suo stomaco borbotterà tutto il tempo seminando imbarazzo nel trio. Non solo c’è una evidente differenza tra i coloni britannici e gli indigeni, che però è del tutto ignorata da Huston, ma anche tra gli stessi compatrioti ci sono diversità inconciliabili. I due missionari sono infatti inglesi e se Charlie è canadese, è comunque suddito della corona: in ogni caso il commento di Samuel quando il mercante finalmente se ne va è eloquente. L’arrivo dei tedeschi scombinerà tutto: Rose e Charlie rimarranno soli sull’African Queen in mezzo alla giungla occupata dai nemici. Tuttavia la distanza tra loro, nonostante siano confinati nei dieci metri della barca, è rimarcata ossessivamente in ogni frase dei loro continui battibecchi formalmente educatissimi. 


Charlie si rivolge ogni volta a Rose appellandola con un rispettoso Miss; la donna tiene ancor di più le distanze ripetendo fino alla nausea il sig. Allnut con cui indirizza ogni sua singola frase. Sebbene ci sia solo il sig. Allnut a cui rivolgere la parola e non solo sulla barca ma nel giro di molte miglia. Qui comincia il vero lavoro di Huston ne La Regina d’Africa. Inizialmente, Charlie Allnut è capitano, meccanico ed equipaggio della sua barca e Rose Sayer una profuga raccolta per pietà dall’uomo, che non poteva mica lasciarla abbandonata in mezzo alla giungla. Uno sguardo ben poco lusinghiero verso la donna, ammesso da Charlie da ubriaco e quindi senza l’ipocrisia che ne aveva fin lì condizionato i dialoghi. E ben peggio è l’opinione che l’uomo ha di Rose da un punto di vista, diciamo così, estetico: vecchia zitella ossuta e bigotta è più o meno il quadro che ne fa. E c’è da dire che Huston, con la sua macchina da presa, giustifica questa descrizione filmando la Hepburn mettendone in luce le spigolose anatomie. Dal canto suo Rose non considerava certo il signor Allnut un modello di virtù, rozzo com’era. Però un misto di gratitudine e ammirazione per un certo pragmatismo si era fatto strada nella donna; che dopo le aspre parole del signor Allnut era però stato accantonato. Il punto era che, nella sua ottimistica ingenuità, Rose pensava che il marinaio di fiume potesse aiutarla a replicare all’affronto tedesco. Il suo carattere aveva una vena vendicativa, per la verità (si veda nei confronti proprio del povero Charlie), ma in questo caso il suo interventismo era anche comprensibile: il fratello era morto in seguito all’irruzione dei militari tedeschi e il villaggio distrutto; se c’era da far la guerra per conto della madrepatria, e questo era il dovere di ciascuno, andava fatto. Ma da lì a pensare addirittura di affondare la Köningine Luise, la nave da guerra tedesca che sorvegliava lo sbocco del fiume, ce ne correva. E poi Charlie era semplicemente un uomo saggiamente opportunista, del resto faceva il mercante, e in questo caso faceva valere il senso pratico. Avevano viveri in abbondanza per starsene tranquilli sul fiume Ulanga aspettando la fine delle ostilità: e poi, che possibilità avevano? Superare le rapide, scantonare il forte militare tedesco a guardia del fiume, affrontare le cascate e arrivare nel lago dove li avrebbe attesi la Köningine Luise, la citata nave da guerra nemica? Impossibile. Ma non per l’ottimistica fede di Rose. Inizialmente Charlie sceglie di acconsentire, giusto per tranquillizzare un po’ la donna e prendere tempo ma presto cerca di farle comprendere l’assurdità dell’impresa. 

Narrativamente questo è il punto di non ritorno della loro storia: Rose getta nel fiume l’intera scorta di Gordon’s Dry Gin di Charlie e si chiude in un mutismo vendicativo che è due volte più assordante visto l’abituale loquacità del personaggio della Hepburn. Una serie di fattori, seppure impliciti e non ostentati, comunque tutti riconducibili agli eventi narrati e non posticci o appiccicati alla bisogna, cominciano a lavorarsi sottotraccia Charlie. In fondo, Rose diceva bene; essendo inglesi, i tedeschi andavano combattuti, anche per semplice sopravvivenza, visto i loro metodi. E poi, mettiamoci anche un po’ di senso di colpa, per le brutte parole, offensive, nei confronti di una donna sola e disperata. Ma più di tutto: perché Rose sembrava così arrabbiata nei suoi confronti? Se l’avesse considerato come un rozzo mezzo brigante, non se la sarebbe presa, no? Che in quel mutismo risiedesse una forma di delusione? 

E qui che scatta qualcosa in Charlie Allnut, perché se avesse mai avuto una buona reputazione allora era il caso di riprendersela. Bogey è magistrale nel condensare tutto questo in un’interpretazione fatta di smorfie, lamenti, occhiatacce, atteggiamenti un po’ artificiosi. Ma difficile reggere il passo della Hepburn. Kate era un’interprete sopraffina, una delle migliori attrici di tutti i tempi, capace di recitare con la voce, la mimica, il portamento ma assolutamente ineguagliabile per la capacità di comunicare tramite lo sguardo. Gli occhi di Katharine Hepburn erano la cristallizzazione dell’emozione; difficile vederla piangere come una fontana, la Hepburn poteva infatti solo interpretare donne forti, ma con la fragilità femminile che il suo fisico magro e slanciato ma anche quasi stilizzato, ben incarnava. Però spesso il suo sguardo si velava di lacrime in modo impercettibile, per gioia o commozione: quello è il momento in cui capisci cosa intendeva Frank Capra [Ci sono donne e donne. E poi c’è Katharine. Ci sono attrici e attrici. E poi c’è Hepburn]. La Hepburn ne La Regina d’Africa è stratosferica. Si trasforma da zitella ossuta e bigotta in donna affascinante, sognante ed innamorata; è lei, la vera regina del film. 

Huston è sempre lì, guardingo, a filmare l’alchimia tra i due protagonisti senza darci respiro, da vicino, stando addosso ai suoi personaggi. Ma anche lui, nei confronti della Hepburn, aveva qualcosa da scontare e, essendo un gentiluomo sotto la scorza che mostrava, lo sapeva bene. In fondo era sua la responsabilità di quella inelegante descrizione; che se per bigotta e zitella bisognava tirare in ballo la Rose Sayer della storia raccontata, per l’aggettivo ossuto si finiva, inevitabilmente, per riferirsi anche all’attrice. E allora ecco che Huston si concentra nel cambiare la prospettiva con cui riprendere la Hepburn: non sono solo i capelli scompigliati che fanno sembrare la donna più naturale, meno impostata, non è solo l’attrice stessa, più distesa nelle espressioni, a riprendersi la sua algida bellezza. 

E’ Huston che si supera quando, con la sua regia, indugia nel mostrarne le curve, in particolare quelle del posteriore, regalando una visione davvero alternativa della diva. Del resto lo aveva anche detto Spencer Tracy, che la Hepburn la conosceva molto bene, che di ciccia Kate ne aveva poca ma ben dosata. Ecco, può sembrare un aspetto secondario, l’aspetto estetico femminile dell’attrice protagonista in un film girato su una bagnarola in un fiume tumultuoso in mezzo alla giunga durante la guerra mondiale, ma Huston aveva un’attenzione ai dettagli e un buon gusto di categoria superiore. Nelle scene che descrivono il rifiorire di Rose (nome programmatico) non c’è infatti mai un anelito di volgarità. Alla fine l’impresa è, assai poco credibilmente, quasi riuscita: l’African Queen è arrivata al lago: per celebrare questo avvenimento, anche Huston in regia si scomoda. Per la verità la barca era ormai rimasta imbrigliata nei canneti, il caldo umido insopportabile, la fatica di dover trainare a spalla l’imbarcazione, le sanguisughe, insomma, Charlie e Rose si erano arresi, non ne avevano proprio più. Era un peccato: ora i loro dialoghi non erano più zeppi di miss o signor Alnutt ma piuttosto di cara, Charlie caro o altre affettuosità del genere. Era un peccato che due persone sole e, in modo diverso, chiuse in sé stesse, avessero trovato nell’amore reciproco il senso della propria esistenza, ma lo avessero fatto troppo tardi. 

E’ in questo solenne momento, quando Rose recita l’ultima preghiera per raccomandare le loro anime, che la macchina da presa sale perpendicolare a riprendere la barca nella sua raccolta interezza, come un guscio dove l’uomo e la donna stanno insieme in modo armonico. Ma Huston è americano mica per niente e allora con spirito pragmatico approfitta di un dolly dallo scopo liturgico per rivelare il colpo di scena successivo. Ecco infatti che l’obiettivo si alza per scorgere, a pochi passi, la distesa d’acqua del lago. Sarebbe una beffa morire così, a pochi metri dal traguardo, ma il soggetto (tratto dal romanzo omonimo di Cecil S. Foster) prevede l’intervento provvidenziale di un temporale che, gonfiando le acque del fiume, disincaglia l’African Queen e la trascina fino al largo. Charlie e Rose si riprendono: ora non resta che attaccare e affondare, con la loro bagnarola, una nave da guerra dell’Impero tedesco. 

Ancora una volta è l’inventiva e la sfacciata fiducia di Rose a spronare Charlie per trovare la soluzione. Del resto già sul fiume, i ruoli tra i due avevano trovato la giusta disposizione: Rose al timone, Charlie in sala macchine. Alla donna il ruolo di guida se non spirituale perlomeno morale, all’uomo quello di fatica ma anche di concreta messa in pratica delle idee, in una simbiosi di reciproco interesse. Certo era lui era l’uomo del fiume, quello che metteva in comunicazione, con il suo commercio, le varie comunità. Ma non aveva ancora compreso l’importanza del suo ruolo; ne aveva la competenza tecnica, pratica, ma non quella morale. E’ lui stesso che lo ammette, all’inizio, quando dice che arrivò dal Canada in Africa per costruire un ponte sul grande fiume. Un ponte di cui non capiva lo scopo: giungla da una parte, giungla dall’altra, perché diamine uno si sarebbe sognato di attraversarlo, quel ponte? Eccolo, quindi, il ruolo di Rose: dare un senso al lavoro di Charlie. 

In ogni caso, dal carico dell’African Queen destinato alle miniere belghe si allestiscono due siluri, da montare a prua dell’imbarcazione; non resta che speronare la Luise, non prima di essersi buttati in acqua, e il gioco è fatto. Anche in una mirabolante avventura come quella raccontata ne La Regina d’Africa un progetto simile non può funzionare e, infatti, la barca fa naufragio prima di arrivare nei pressi della nave nemica. I due, finiti a mollo, sono raccolti dalla Köningine Luise e stanno per essere impiccati come spie, ma Charlie sorprende tutti chiedendo, quando già lui e Rose sono quasi con la corda al collo, al capitano della nave di sposarli. In quel momento l’espressione sorpresa di felicità della Hepburn, come si suol dire, vale il prezzo del biglietto, ma i colpi di scena non sono finiti. Proprio nel momento cruciale il relitto dell’African Queen sperona la nave provocando l’esplosione degli improvvisati siluri e l’affondamento della Luise! E’ un lieto fine ironico, con i nostri naufraghi in mezzo ad un lago in piena Africa, durante la guerra, ma se pensiamo che erano già felici di essersi sposati un attimo prima di finire impiccati, si può definire davvero lieto. Dopo averne fatte passare di cotte e di crude ai suoi personaggi, e averci cavato un film tanto bello e divertente, un vero inno alla voglia di vivere, Johnny Huston era il minimo che potesse fare.   







Katharine Hepburn






2 commenti:

  1. Ho notato che ultimamente le recensioni le fai più brevi di prima, ma qui sei tornato a dilungarti, segno che su questo film c'è tanto da dire ;)

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  2. Intanto devo precisare che generalmente attingo le recensioni dal mio archivio e quindi non c'è necessariamente una relazione tra la data di realizzazione della rece e la sua pubblicazione. Poi, non c'è assolutamente un tentativo da parte mia di uniformare in qualche modo la lunghezza delle mie riflessioni su un film. Per certi mi pare interessante metter lì due righe, che sono sempre più di zero, mentre per altri film ho voglia di scrivere di più. De La Regina d'Africa, e in genere dei grandi autori come John Huston, parlo (e quindi scrivo) volentieri e quindi ecco i post più lunghi. Comunque, credo che si possa dire che sia oggettivo: i particolari, i dettagli, i differenti piani su cui lavorano i grandi autori, fanno una differenza qualitativa ma anche quantitativa con opere più 'semplici'. La rece riflette anche questo.

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