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giovedì 21 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA TORTURA DELLA SPERANZA

1052_IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA TORTURA DELLA SPERANZA. Italia, 1982; Regia di Mario Chiari.

La terza stagione della serie antologica Il fascino dell’insolito - Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza si apre con un film quanto mai inusuale tratto da racconto di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam. Il letterato francese, che nel racconto La vigilia del futuro (L’Eve future) utilizzò per primo la parola androide con l’accezione che prese poi comunemente nella fantascienza, forse anche per la vera o presunta misoginia presente proprio nella citata opera che probabilmente è considerata la più rappresentativa della sua poetica, non gode oggi di grande popolarità. Tuttavia come scrittore sapeva il fatto suo e ne La tortura della speranza riesce ad essere più ficcante ed incisivo della trasposizione televisiva curata dalla Rai. Mario Chiari, autore di sceneggiatura e regia, fa un discreto lavoro, soprattutto per quel che riguarda la lugubre e fosca ambientazione nelle segrete della Santa Inquisizione Spagnola, ma fatica a concretizzare lo spirito del racconto. L’inserto con la presunta strega (un’esagitata Piera degli Esposti), che ha un lungo dialogo con il rabbino al centro della vicenda (Julian Beck), alza i toni teatrali della vicenda, dando corpo ad un film che finisce per superare abbondantemente l’ora senza peraltro riuscire del tutto convincente. Il racconto di Villiers de L’Isle-Adam è più secco, più conciso, così che la crudeltà del Grande Inquisitore (Bruno Corazzari) riesca più centrale nel complesso del testo. Qui c’è l’aspetto più interessante della questione, un aspetto che prevarica la riuscita o meno della trasposizione filmica, che tutto sommato lo mantiene integro ed è quindi il vero motivo di vanto dello sceneggiato. Perché la Santa Inquisizione è descritta con una sottile indulgenza da Villiers de L’Isle-Adam e anche l’interpretazione di Corazzari ha un ché di ambiguo al di là della sua apparente benevola comprensione per l’anima del condannato unita ad una spiazzante affettazione dei modi. E così si rischia quasi per credere alla buona fede degli inquisitori: ma ci pensa il finale, a rivelare il contro-significato della vicenda. Il titolo dell’opera è, infatti, La tortura della speranza, intendendo che gli inquisitori lasciano credere al rabbino che possa scappare; per attenderlo al varco quando pensa di essere ormai libero, sfuggito al rogo che lo attende la mattina dopo. La più crudele delle delusioni. Un po’ come la nostra, quando si possa addirittura aver sospettato una qualsivoglia forma di buona fede nell’animo dei carnefici che furono tra peggiori che la Storia abbia mai conosciuto.   




  Piera Degli Esposti


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