1042_AMICI MIEI . Italia, 1975; Regia di Mario Monicelli.
Capolavoro della commedia italiana, Amici miei è un film eccezionale sotto molti punti di vista. Scritto e sceneggiato tra gli altri da Pietro Germi, che pare dovesse anche dirigerlo, venne poi affidato alla solida regia di Mario Monicelli. Anche per alcuni ruoli ci furono dei cambi: Marcello Mastroianni prima e Raimondo Vianello poi, rifiutarono quella che è ritenuta la parte principale (quella del mitico conte Mascetti) andata infine con massimo profitto a Ugo Tognazzi. In ogni caso il cast è di prim’ordine: oltre a Tognazzi, troviamo Philippe Noiret (il Perozzi), Adolfo Celi (il Sassaroli), Gastone Moschin (il Melandri) e Duilio Del Prete (il Necchi), per restare ai cinque non più giovanissimi protagonisti. Al centro del racconto filmico le celeberrime zingarate del gruppo, escursioni senza meta né scopo se non quello di divertirsi alle spalle di un qualunque malcapitato: dal viaggiatore di un treno che si vede rifilare un sonoro ceffone in una delle più iconiche scene del cinema italiano, al parroco di un paesino semideserto che scopre che il passaggio di una fantomatica autostrada gli raderà al suolo chiesa e mezzo centro abitato. La scorrettezza dei cinque, che non esistano ad approfittarsi di chiunque per i loro scherzi, è una delle cifre stilistiche più interessanti del film. L’importanza di Amici miei, va infatti al di là della critica sociale che comunque veicola: i cinque sono infatti rappresentanti dell’Italia se non benestante, neppure miserabile. L’unico in difficoltà economiche è il nobile conte Mascetti, che comunque i suoi averi, e quelli della moglie, li ha sperperati e quindi non può certo invocare l’ingiustizia sociale per la sua condizione.
Se guardiamo gli altri, non si possono certo lamentare del loro status: il Perozzi è redattore, il Melandri architetto, il Sassaroli un dottore e il Necchi, quello dalla matrice più popolare del gruppo, è comunque un negoziante e quindi perlomeno un borghese in tutto e per tutto. Di contro le famiglie, quella del Necchi a parte, sembrano tutte disastrate; su questo versante, quello della critica a questa importante istituzione del Belpaese, esemplare è la vicenda che introduce il Sassaroli nel gruppo. Il Melandri si invaghisce di Donatella (una superba Olga Karlatos), moglie del dottore; quest’ultimo, a fronte della folle richiesta dell’architetto – “le chiedo la mano di sua moglie” – non solo accetta, ma gli consegna le due figliolette, la governante e il cane sanbernardo al seguito. Insomma, l’intera famiglia viene liquidata dal Sassaroli come un peso di cui disfarsi con massimo sollievo.
Ma nulla viene risparmiato dall’acida ironia e dal cinismo del racconto: ad esempio finisce sotto il dissacrante obiettivo della MdP di Monicelli la religione, con la supercazzola rifilata al prete sul letto di morte in luogo dell’ultima confessione; e, in fondo, ci resta perfino la morte stessa, con quel citato passaggio quasi blasfemo e tutto sommato anche con il funerale che ne segue. E che dire della vecchiaia, con il pensionato Righi (Bernard Blier), peraltro pessimo figuro di suo, sbeffeggiato senza ritegno e senza alcun limite? Come si è spesso letto, Amici miei è uno spaccato dell’Italia degli anni Settanta, dove le speranze del boom economico, si veda la provenienza sociale dei protagonisti, si erano già infrante, non supportate adeguatamente nella loro crescita dallo scarso tessuto morale del paese. Non avendo infatti ottenuto alcun beneficio personale dallo sviluppo socio economico dell’Italia, i cinque personaggi del racconto preferiscono quindi ritornare ragazzi, per non dire bambini, quando cioè ci si poteva allegramente comportare senza alcuna remora morale. In questo senso, nello scollamento tra la condizione economica e il degrado morale dei personaggi, Amici miei, che esce ancora nel pieno dell’eco sessantottina, è un testo modernissimo. Il conte Mascetti, che è povero – ma come detto ha poche scuse da accampare – non è infatti tanto l’eccezione che conferma la regola.
Piuttosto: il punto è che l’economia non influenzi poi più di tanto la moralità dell’individuo, visto che la banda di scombinati è composta più che altro di benestanti ma anche dal Mascetti che è senza una lira. Se ne può dedurre che i valori morali diffusi nella società sono indipendenti dalla condizione economica. Anche il sentimento dell’amicizia, che in fondo si prende la ribalta del titolo, non è che sia poi così lusingato dal film. O forse sì, visto che la mancanza di scopo delle zingarate le può porre su un piano disinteressato che è uno dei cardini della vera amicizia. Ma al di là del tema dell’amicizia, che può essere comunque interpretato come uno dei pochi valori positivi sociali che il film in qualche modo comunica, gli aspetti più interessanti di Amici miei sono forse di natura tecnica. Innanzitutto vanno messi a referto un paio di rimandi al cinema di genere italiano: uno è la bottiglia di whisky J&B che fa la sua comparsata manco fossimo in uno dei thriller nostrani dell’epoca.
L’altro è un passaggio scatologico, quando il Necchi fa il suo bisogno grosso nel vasino del bambino, durante la festa nella quale i cinque si imbucano. Per un attimo si ha l’impressione che il ricordino del tabaccaio sembra davvero vedersi, all’interno del vasino, e considerato che Amici miei è un film che porta la firma di Monicelli e Germi e vede coinvolta gente come Tognazzi e Noiret, la cosa fa un certo effetto. Certo, c’è anche il passaggio con la puzzetta rilasciata dal Sassaroli in auto, ma l’inquadratura di un escremento umano è da mettere su un altro piano, per le convenzioni cinematografiche. Insomma non siamo in uno degli ultimi spaghetti western, dove la deriva scatologica aveva ormai preso il largo, o in un filmetto con Alvaro Vitali.
Volendo anche lo stesso scherzo con cui i nostri imbrogliano il Righi, ovvero lo scontro fittizio coi Marsigliesi, sembra rivolto allo stesso tempo al nostro cinema poliziottesco oltre che al povero pensionato. L’idea complessiva è che Monicelli voglia provocatoriamente ascrivere il suo Amici miei alle ultime tendenze che in quei tempi, i Settanta, avevano conquistato il cinema italiano; ma non sembra un sentimento di grande stima, per la verità. E se la citata Strage di San Valentino poteva averci messo una mezza pulce nell’orecchio, c’è una scorrettezza grammaticale cinematografica molto raffinata che merita a pieno titolo di tirare in ballo addirittura Billy Wilder e, in questo caso, il suo capolavoro Viale del tramonto.
Il film di Monicelli è infatti raccontato da una voce fuori campo, quella del Perozzi; il quale, nel finale muore. Nel film di Wilder assistevamo ad un racconto di un tizio che era morto sin da subito; in Amici miei la morte del narratore sopraggiunge solo nel finale, tuttavia, nella logica narrativa, è quindi impossibile che sia stato poi lì con noi per tutto il film a raccontarci le zingarate del gruppo. Naturalmente, sia nel caso di Wilder che in quello del film italiano, siamo di fronte ad errori di ortografia cinematografica voluti e, quindi, significativi. Un po’ come se gli autori, evidenziando tramite questi errori come il cinema sia solo e soltanto una rappresentazione del vero, volessero prendere le distanze dal testo stesso, affiancandoci nella visione. Per rifletterci sopra: meta-cinema, insomma, cinema che ha come riferimento sé stesso più che non quella realtà alla quale, apparentemente, in prima istanza sembra ispirarsi. E se in Viale del tramonto Wilder si chiedeva, sostanzialmente, se ad Hollywood il cinema avesse dannato la propria anima, Germi e Monicelli con Amici miei celebrano invece il funerale del cinema italiano. E per estensione – visto che il cinema conserva il ruolo di specchio della realtà – dell’intero paese.
Mmm… e se invece fosse tutta quanta una supercazzola? Ma, nel caso, cosa? Il film o il paese?
Olga Karlatos
Silvia Dionisio
Milena Vukotic
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