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lunedì 27 ottobre 2025

AFRICA NUDA, AFRICA VIOLENTA

1751_AFRICA NUDA, AFRICA VIOLENTA , Italia 1974. Regia di Mario Gervasi 

Figura a suo modo misteriosa, Mario Gervasi, autore polivalente di Africa nuda, Africa violenta, era, secondo il quotidiano Stampa sera, “un italiano che ha una ventennale esperienza africana, e del Continente Nero conosce tutti i misteri e le infinite particolarità”. [in prima, Stampa sera, anno 106, n. 96, venerdì 26 aprile 1974, pagina 11]. Il suo apporto al cinema si esaurisce con questa sua opera di cui, per altro, fu ideatore, realizzatore, direttore della fotografia e regista, aiutato in ambito «artistico» da Guido Guerrasio, al tempo fresco della collaborazione con i gemelli Castiglioni. Stando al citato articolo, il contributo di Guerrasio si focalizzò su montaggio e commento, sebbene la moglie ne minimizzi l’apporto. “Dopo (Magia nuda, NdA) ne ha montato solo un altro che si chiamava… ma adesso non mi ricordo più il vero nome che gli avevano dato con un’altra società”. L’intervistatore arriva in soccorso alla memoria della signora Guerrasio: “Africa nuda, Africa violenta di Mario Gervasi dove è accreditato come collaboratore?” e la donna chiude laconicamente la questione: “Si, ma aveva guardato solo qualche cosa perché era stufo di fare quei film”. [Conversazione con Mimi Ferrari. Da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 206]. In realtà, Guerrasio, sembra mettere direttamente la firma al commento in un passaggio ironico in cui cita due suoi precedenti lavori con i Castiglioni. Le immagini mostrano alcuni indigeni che sfoggiano, sotto i calzoncini, biancheria intima all’occidentale: “L’Africa non è più tanto segreta e ama in mutande” recita il commento, citando Africa segreta (1969) e Africa ama (1971). La ‘voce over’ chiosa quindi con una riflessione filosofica: “Al posto dell’antica e schietta sincerità, subentra la malizia che è figlia del pudore e madre dell’ipocrisia”.   
Il maestro A. F. Lavagnino si occupò delle musiche, perlopiù riprese direttamente dai canti tribali africani che, insieme alla fotografia un po’ smunta della TeleColor, conferiscono a Africa nuda, Africa violenta, l’aspetto naif di un filmino amatoriale. Forse, per compensare questa impressione, derivante probabilmente dal formato originale della pellicola, Gervasi inserisì una robusta traccia narrativa che sorregge tutta quanta l’operazione. Le protagoniste sono due donne, e da un Mondo movie era quasi naturale aspettarselo: Maludì, interpretata da Marilou Ahité, una ragazza africana, e Chantal, nel cui ruolo troviamo Herta Malag, giovane europea. La vicenda è ambientata nell’Africa occidentale, tra Togo, Dahomey, Costa D’avorio, Camerun: Maludì è convinta di essere vittima di una sorta di maledizione inflittagli da una Féticheur, uno stregone animista, e parte per un viaggio all’interno del continente per cercare di liberarsene. Oltre alla generica voce narrante, tipica dei Mondo movie, c’è qui quella di Chantal che si occupa di rivelare i dettagli delle esperienze vissute dalle due giovani a contatto di una serie interminabile di riti religiosi particolarmente violenti e sanguinari. 

I pensieri intimi e le tentazioni saffiche di Chantal, con protagonista Malidù, riescono, tutto sommato, ad alleggerire la pesantezza dei rituali, in qualche frangente persino ossessivi, La ragazza africana era nata in un villaggio e, in seguito, si era diplomata segretaria d’azienda e, almeno apparentemente, viveva inserita nel mondo «civilizzato»; tuttavia, anche da un punto di vista religioso, la sua adesione al cattolicesimo non era riuscita a eliminarne completamente la matrice animista. La sua figura è probabilmente il simbolo dell’Africa, in bilico tra la modernità e le proprie antiche tradizioni, almeno quanto il fascino che emanava su Chantal era quello che il mondo civilizzato, in quegli anni Settanta, avvertiva per il Continente Nero, nel quale poteva vedere, forse per l’ultima volta, la sua antica origine. Il film di Gervasi prova a ricostruire, attraverso filmati amatoriali, comunque ben realizzati, e una trama onestamente un po’ stentata, questo quadro, e tutto sommato qualche cosa riesce a combinare. Scettica, come prevedibile, la critica del tempo: “All’origine del film è un discorso ormai abituale. Nell’Africa nera i riti ancestrali convivono con la nuova fede cristiana, le usanze tribali si scontrano con la mentalità del XX secolo. In genere vittime di questi dissidi sono le donne, tuttora condannate a un posto secondario nella società patriarcale e assoggettate a una dura fatica in famiglia e sul lavoro. Nel Dahomey, nel Togo, nella Costa d’Avorio, vediamo seviziare le vergini innocenti, vediamo punire le sacerdotesse che hanno infranto il tabù della castità, vediamo soprattutto un numero incredibile di iniziazioni sanguinose con adolescenti dell’uno o dell’altro sesso. Nei cento minuti di proiezione i «flash» inattesi e spietati non si contano. Manca però in Gervasi la coscienza vera dell’etnologo. Spesso le cerimonie e i loro sadici particolari vengono evidentemente protratti per la morbosa curiosità della cinepresa”. [p. p., Sexy dall’Africa, La Stampa, anno 108, n.99, martedì 7 maggio 1974, pagina 7]. Pur se con la consueta severità, il commento sembra centrato sulle effettive caratteristiche del film. Come del resto anche quest’altro: “Per certi nostri cineasti, l’Africa resta nuda e violenta, anche se, da molti segni, risulta che in quel continente stanno avvenendo molte altre cose. Qui si immagina di seguire le mosse di una ragazza africana che, in compagnia di una coetanea bianca, vaga per il proprio paese alla ricerca della verità circa una oscura profezia lanciatale nel villaggio natio. Riti e sacrifici, danze e iniziazioni, occupano quasi l’intero metraggio della colorata pellicola; ma nonostante le spiegazione della voce «fuoricampo» il vero significato di quanto ci viene mostrato rimane abbastanza in ombra. La parte narrativa del film, vagamente ispirata a concezioni animistiche, non lega infatti con quella documentaria, che forse può essere salvata qua e là come illustrazione di costumi in via di trasformazione. Tuttavia lo scopo ultimo del regista Mario Gervasi (ha collaborato con lui Guido Guerrasio) sembra essere quello di mostrare con insistenza seni e glutei tra sangue e sporcizia”. [Le prime, Africa nuda, Africa violenta, L’Unità, sabato 18 maggio 1974, pagina 9].
Nel complesso, un’operazione non del tutto riuscita che non «pagò» nemmeno al botteghino. Da segnalare, oltre allo splendido manifesto realizzato dal maestro Sandro Symeoni Simeoni, i flani che, sui quotidiani, promettevano sfracelli: «Quello che non avete mai visto – quello che non vedrete più: Mamie Water mangia i cuori vivi. Implorazioni al dio fallo. Gli amori proibiti delle vergini sacre. La danza del sangue. La maledizione del Gri-Gri. Sacrifici e riti pagani in città e foreste. Il fallo che punisce la vergine infedele. Non è uno slogan pubblicitario! Severamente vietato ai minori di anni 18. Si avverte il pubblico che il film contiene scene di agghiacciante crudezza e alta sensualità, se ne sconsiglia pertanto la visione alle persone emozionabili».
Che dire, quasi più eccitante del film stesso. 



Galleria 

      

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