Translate

sabato 13 aprile 2024

SCHIAVE BIANCHE - VIOLENZA IN AMAZZONIA

1467_SCHIAVE BIANCHE - VIOLENZA IN AMAZZONIA . Italia 1985; Regia di Mario Gariazzo.

24 aprile 1981: usciva nelle sale Cannibal Ferox con il quale, Umberto Lenzi, il regista con cui tutto era iniziato – nel 1972, Il paese del sesso selvaggio – metteva la parola fine al genere cannibal italiano. Una chiusura efficace e definitiva; tuttavia, non era facile, soprattutto per i produttori, accettare che un filone tanto remunerativo si fosse esaurito. In effetti, l’anno successivo, autori sempre lesti a cavalcare l’onda buona come Jesús Franco e Joe D’Amato, avevano insistito, con opere che, se non si inserivano prettamente nella corrente cannibalica del Belpaese, ne sfruttavano il traino. Questo era vero soprattutto per Franco, autore spagnolo che, nel 1982, girava El tesoro della diosa bianca, film d’avventure che, però, il re dell’exploitation iberica sfornava dopo La dea cannibale e Il cacciatore di uomini, usciti nel 1980. Insomma, l’impressione è quella che i produttori non volessero mollare facilmente la presa. Ma, nei successivi due anni, il 1983 e il 1984, le sale non videro arrivare sugli schermi alcun film coi cannibali protagonisti prodotto in Italia; in Nudo e Crudele, ad esempio, mondo movie del 1984 di Bitto Albertini, i cannibali c’erano, ma in uno solo uno dei diversi “segmenti” narrativi che componevano lo pseudo-documentario. Tanto per capirci: in precedenza, nei cinque anni tra il 1977 e il 1981, uscirono almeno quattordici lungometraggi appartenenti alla corrente. Il regista indicato per provare a rilanciare il genere, e smentire un’autorità in materia come Umberto Lenzi –che, come detto, aveva provato a chiudere l’argomento– fu, manco a dirlo, Ruggero Deodato. I progetti, in tal senso, che misero al centro il regista potentino, furono due e quasi contemporanei: Deodato scelse di girare Inferno in diretta, completando la personale trilogia cannibale e cercando di togliere l’ultima parola al “rivale”. Tra Lenzi e Deodato, infatti, pare vi fu una sorta di polemica per la paternità del cannibal italico e, a quel punto, tanto valeva disputarsi anche la chiusura del filone. Il risultato fu che, in quell’agosto 1985, con le sale cinematografiche italiane presumibilmente deserte, ci fu un curioso assembramento di cannibali sugli schermi. Subito dopo a Inferno in diretta uscì Schiave bianche – violenza in Amazzonia, inizialmente, come detto, offerto proprio a Deodato ma poi finito, dopo il rifiuto di questi, nelle mani di Mario Gariazzo. Oltretutto, prima di settembre, uscì anche Nudo e selvaggio di Michele Massimo Tarantini, a cui, quindi, spettò l’onere di mettere fine al vituperato genere cannibal. Una conclusione provvisoria, come vedremo, perché nel mondo del cinema la parola fine è un concetto assai relativo. In ogni caso, almeno per quel 1985, e per un paio d’anni ancora, in Italia nessuno parlò più di cannibal movie e, a questo punto, il modesto Nudo e selvaggio sembrava proprio essere stato l’epilogo del genere. 

A suo modo, un peccato, perché Schiave bianche – Violenza in Amazzonia, avrebbe potuto essere una fine tutto sommato dignitosa, nonostante quello di Gariazzo sia ben lungi dall’essere un lavoro davvero encomiabile. Tuttavia, nel complesso, si può ritenere un prodotto onesto. Anche nel suo prendere spudoratamente alcuni riferimenti direttamente dai predecessori più illustri: i debiti con Cannibal Holocaust sono evidenti, sia nella matrice metalinguistica, con il presunto filmato veritiero, sia nelle musiche di Franco Campanino che riecheggiano quelle meravigliose di Riz Ortolani per il capolavoro di Deodato. Forse, per una sorta di “par condicio”, qualche riguardo c’è anche nei confronti di Lenzi, con la protagonista bionda, in questo caso Elvire Audray in luogo di Janet Agren, che faceva un’esperienza simile in Mangiati vivi! (1980), da cui sembra ispirata anche la scena del dildo. In ogni caso, qualche analogia, con la storia d’amore tra il personaggio del mondo occidentale e la sua controparte indigena, può perfino rimandare a Il paese del sesso selvaggio, capostipite del 1972 dello stesso Lenzi. 

Ma, al di là di questi tributi, Schiave bianche – Violenza in Amazzonia, e, seppure si possa ritenere un prodotto rispettabile, non riesce a convincere del tutto, più che altro per via della sua cifra autoriale. Quello di Gariazzo è impostato con mestiere, con una struttura narrativa che agevola la fruizione: il flashback, con Catherine Miles (la Audray) che racconta la sua tragica vicenda, se toglie parte delle incognite, il suo personaggio è sicuramente sopravvissuto, ne semina molte altre, e la suspense sulla vera identità dei colpevoli tiene botta fino al finale. In realtà, il riferimento cinematografico della vicenda sembra voler essere Un uomo chiamato cavallo (1970, regia di Elliot Silverstein) e, per quanto quello di Gariazzo, come detto, non sia un film da buttare, il confronto finisce per penalizzarlo. E in ogni caso, anche per chi non conoscesse il mitico lungometraggio americano ambientato tra gli indiani Sioux, l’intento di far germogliare una storia d’amore tra un’occidentale e un indio amazzonico di una tribù di tagliatori di teste, non è cosa da poco. Soprattutto se, per quasi tutto il film, la protagonista in questione sia convinta che l’uomo sia l’assassino dei suoi genitori. In sostanza, il problema di Schiave bianche – Violenza in Amazzonia è che gli elementi in gioco sono pesanti, occorre saperli cucinare a dovere e Gariazzo non sembra lo chef in grado di farlo. Spesso si sottolinea che la pellicola non sarebbe da ascrivere propriamente ai cannibal, dal momento che gli indios su cui è incentrata la vicenda sono tagliatori di teste ma non antropofagi. Ma è la stessa confezione formale, il rispetto dei molti cliché, e, quindi, in sostanza, la precisa volontà di autore e produttori, a dare l’impressione di un film che si iscriva scientemente nella corrente cinematografica italiana più discussa di sempre. Perché, oltre agli espliciti rimandi ai film di Deodato e Lenzi, ci sono anche le famigerate scene, reali e non fittizie, di violenza del mondo animale, sebbene si sia precisato che si tratti di immagini di repertorio e non realizzate per l’occasione. Inoltre, nonostante non siano affatto indispensabili al racconto, i cannibali sono citati nella storia in qualità di tribù rivale a quella del protagonista maschile, Umukai (Will Gonzales). Due elementi su cui invece Gariazzo calca la mano senza reticenze sono la violenza efferata nella narrazione e le nudità femminili, aspetto nel quale Elvire Audray si disimpegna a dovere. Ma l’intento del regista non sembra solo quello di sfruttare le richieste morbose del pubblico di questo tipo di cinema, siano esse per le scene erotiche o quelle di violenza brutale, ma Schiave bianche – Violenza in Amazzonia lascia intendere un intento più impegnato. I riferimenti al contro-western, il citato film Richard Harris, ma anche quelli ai Vietnam-movie, nella scena dell’attacco con l’elicottero al villaggio degli indios, sono però poi banalizzati dal trattamento riservato alla storia sentimentale tra Umukai e Catherine. La teoria del “buon selvaggio” ha certamente delle lodevoli intenzioni, ma nasconde dentro di sé il tipico paternalismo dell’uomo bianco che “concede” pari dignità alle altre culture. Un tema non certamente semplice da affrontare e, in ogni caso, totalmente al di fuori del contesto di un film d’avventure come Schiave bianche – Violenza in Amazzonia, ma di cui gli effetti di un trattamento banale, si concretizzano in un risultato assai poco convincente. 

Più in linea con il clima dell’operazione, la deriva horror-revenge del finale, con la protagonista che si fa giustizia da sé con insospettabile violenza. Christine rivela un’attitudine talmente efferata che il buon Umukai, il tagliatore di teste dal cuore tenero, arriva a suicidarsi non potendola accettare. Tra i tanti limiti che si possono imputare al film di Gariazzo, pare evidente che non vi sia quello di sciatteria o approssimazione, semmai c’è l’incapacità di regista, e produzione, di essere all’altezza delle proprie ambizioni. Anche lo stratagemma dell’autenticità della vicenda, con addirittura un breve filmato, spacciato per reale e mostrato durante la narrazione filmica, non è affatto peregrino. Si inserisce, ancora una volta, nella scia del citato Cannibal Holocast, e, per quanto non originale, riesce ad instillare un dubbio “scomodo” nello spettatore. “È realmente tratto da una storia vera, il film di Gariazzo?” viene da chiedersi, ad un certo punto. Perché il dubbio sorge, in modo talmente consistente che, sul sito Cinematografo [www.cinematografo.it/film/schiave-bianche-violenza-in-amazzonia-hwia3i4q] è riportata una recensione del tempo (20 agosto 1985) del critico Mario Milesi, per “Bergamo Oggi”, in cui il giornalista invocava un’organizzazione del tipo “Unione dei Consumatori” che avessero il compito di smascherare operazioni simili. 

La sua difesa dello spettatore “inevitabilmente disinformato” rivela il re-imbarbarimento culturale che la nostra società iper-protettiva stava già all’epoca mettendo in atto. Il punto che preme al Milesi –e, ahinoi, non solo a lui– è che lo spettatore sia indifeso a fronte di una didascalia di un film in cui ci si dice che la storia ivi raccontata sia tratta da un fatto vero. D’accordo, nel 1985 non c’era internet e informarsi era certamente più complicato di oggi, ma l’arma più potente che un individuo ha per queste circostanze sta comodamente posta all’interno della scatola cranica di ciascuno da milioni di anni. Quello che non bisogna mai smettere di metter in campo è il seme del dubbio, questo è quello che andrebbe auspicato e non fantomatici istituti che censurino operazioni che, tra l’altro, nel loro essere subdole, stimolano la nostra capacità intellettiva. In effetti, per un film come Schiave bianche – Violenza in Amazzonia, e naturalmente anche per il citato Cannibal Holocaust, spesso si legge la definizione inglese mockumentary. Il termine è la crasi di mock, ovvero “fare il verso”, e documentary, e in italiano non abbiamo una parola così appropriata. Concettualmente, pseudo documentario, ha, in effetti, un significato assai simile, ovvero ci si riferisce ad un documentario che, ironia della sorte, documentario non è. Ed è appunto, riferendosi a questa sorta di scherzo che ci stanno tirando gli autori, che la definizione vagamente umoristica di “fare il verso” centra maggiormente l’obiettivo. Al cinema, a fronte di qualunque tipo di cinema, perfino di quello appartenente rigorosamente al genere documentario, si ha la buona prassi di leggere, dopo il titolo, il nome del regista, a testimoniare che quello che vedremo sullo schermo è opera della sua –del regista– prospettiva, e mai –MAI– di una visione oggettiva. Per questo non serve la fantomatica “Unione dei consumatori” auspicata dal Milesi, perché mai si deve prendere per oro colato quello che vediamo in una sala cinematografica. E se questo è vero per i capolavori della Settima Arte –ed è assolutamente vero– lo è certamente anche per Schiave bianche – Violenza in Amazzonia. Ma questo non è il minore dei problemi, è, semmai, uno degli aspetti più intriganti del film di Mario Gariazzo.  


Elvire Audray




Galleria 


Nessun commento:

Posta un commento