1322_I MAGLIARI . Italia, Francia, 1959; Regia di Francesco Rosi.
L’anno successivo al sorprendente esordio dietro alla macchina da presa, Francesco Rosi procede nel suo alchemico lavoro cinematografico. Se La sfida era, in questo senso, soprattutto la commistione tra il neorealismo italiano e il cinema di genere americano, ne I Magliari vengono aggiunti ulteriori elementi. Questo senza sminuire gli aspetti già presenti nella sua opera prima: l’impianto della storia, ambientata nel mondo del commercio clandestino, è sostanzialmente quello de La sfida, fatto salvo il cambio degli articoli venduti. Certo, la vicenda non è ambientata a Napoli ma il fatto che la stragrande maggioranza dei venditori sia partenopea è un elemento abbastanza inequivocabile: impressione ulteriormente rafforzata dal fatto che due interpreti siano poi gli stessi e abbiano di fatto gli stessi ruoli di quelli avuti nel precedente film. Nino Vingelli è, infatti, Vincenzo, il comprimario più importante, mentre Carmine Ippolito è don Raffaele, il boss a cui si prova a fare le scarpe. La scelta di Hannover e Amburgo, per ambientare la vicenda, appare un altro tassello in tal senso, sia per le condizioni dei personaggi ma, volendo, anche come citazione diretta al movimento cinematografico visto che la Germania era stata una delle poche escursioni all’estero dei film neorealisti. D’altra parte, la Germania del 1959 era già abbastanza diversa da quella descritta dal capolavoro di Roberto Rossellini, Germania anno zero (1948), e la modernità delle città in cui si svolgono i fatti è un aggancio più forte al noir e ai crime movie americani del tempo, rispetto ai quartieri popolari di Napoli visti ne La sfida.
Inoltre, ne I Magliari è rispettato maggiormente il cliché narrativo tipico dei noir: il protagonista, Mario Balducci (Renato Salvadori), è un uomo dall’animo onesto ma allo sbando, che viene tentato dall’ambiente criminale e, soprattutto, sedotto dalla dark lady della situazione. La signora Mayer interpretata da una splendida Belinda Lee è una perfetta femme fatale, dall’animo anche buono ma incapace di resistere ai privilegi che la sua condizione di donna bellissima le offre. Se il fatto che Mario riesca, nel finale, a resistere alla tentazione della Mayer è un tratto legittimamente distintivo del film rispetto al classico canovaccio del prototipo noir, ci sono altri elementi che inquinano l’equilibrio complessivo stavolta con meno successo rispetto a La sfida. Ed è un vero peccato, perché se il limite nel film d’esordio di Rosi era proprio la mancanza di personaggi positivi, ne I Magliari se ne possono contare almeno due. Il primo è il protagonista Mario, al quale si può imputare, semmai, di evitarsi una fine tragica che lo renda narrativamente immortale. Il secondo è proprio la signora Mayer che, pur con le proprie debolezze, è in grado di rispettare le scelte di Mario anche se la vedono finire accantonata. Si diceva della statura complessiva del protagonista a cui manca effettivamente qualcosa per reggere degnamente il ruolo di eroe di una vicenda drammatica ma anche avventurosa. In effetti Renato Salvadori era un attore fin lì noto prevalentemente per le sue commedie, di cui Poveri ma belli (1957, regia di Dino Risi) è un semplice esempio tra i tanti, visto che Rocco e i suoi fratelli (1960, di Luchino Visconti) era di là da venire.
Ad accentuare questo tentativo di inserire i toni della commedia all’italiana sul precedente connubio tra neorealismo e noir è lampante la scelta di inserire un mostro sacro come Alberto Sordi nel ruolo di Totonno. L’Albertone nazionale scorrazza nel film da par suo, parla a ruota libera, truffa, imbroglia, salvo poi fare il risentito se qualcuno obietta qualcosa sulla sua condotta. Questo, nella fattispecie, è forse la connotazione più deleteria di Sordi, ma ascrivibile in generale al cinema leggero italiano, tanto che perfino Totò ricorreva spesso ad un atteggiamento simile. Il tipico intrallazzatore italiano, figura dal quale faticò ad uscire Sordi nella pur sterminata carriera, quando veniva in qualche modo messo sotto accusa, girava la frittata accusando l’interlocutore delle sue eventuali manchevolezze, scantonando quindi anche la pur minima assunzione di responsabilità. Spesso, qualora la cosa non funzionasse, il nostro poteva anche piagnucolare meschinamente oppure, come nel caso del finale di I Magliari, defilarsi con la cosa tra le gambe, salvo poi tornare a fare la voce grossa quando l’avversario non era più nei paraggi. Atteggiamenti tipici della commediola e non certo di opere di un certo spessore drammatico. Infatti, nonostante il preponderante peso nel racconto – in termini di presenza sullo schermo – quello di Sordi è un personaggio sostanzialmente inutile, nel film: sarebbe addirittura possibile riscrivere la sceneggiatura eliminando Totonno e non cambierebbe niente di rilevante. E’ quindi un altro, lo scopo di Rosi nella scelta di inserire il personaggio di Sordi, e probabilmente quello di dimostrare l’estraneità del cinema italiano più recente – la commedia all’italiana rispetto al neorealismo – se confrontato con il cinema internazionale.
Il neorealismo poteva infatti coesistere con il noir, del resto Ossessione (1943, regia di Luchino Visconti) e Il postino suona sempre due volte (1946, di Tay Garnett), due capisaldi delle rispettive correnti, condividevano lo stesso soggetto. La sfida, nei suoi aspetti positivi, ne era un’ulteriore conferma. I Magliari, pur essendo un altro apprezzabile risultato ottenuto da Rosi in regia, funziona assai meno e a destare le maggiori perplessità sono appunto gli elementi della commedia che se non ostacolano, certamente si inseriscono in modo poco armonico nel contesto. A riprova di ciò, Totonno si defila nel momento drammatico dello scontro con gli zingari, con una scusa che rimarca la sua inadeguatezza: i suoi compari ridono e se la spassano, mentre attendono la comparsa degli avversari, e il tono allegro, proprio a lui, sembra inadeguato alla situazione.
Così la scazzottata avviene soltanto quando Totonno si è levato di scena; significativamente, il truffatore non rinuncia però alla dose di violenza che la trama gli avrebbe riservato, rifugiandosi da una prostituta dotata di frusta. Proprio in questo passaggio, con l’Albertone che guarda in macchina e si giustifica con lo spettatore per la scappatella a pagamento che intende concedersi, c’è un ulteriore sottolineatura dell’estraneità di Totonno dal resto del racconto. Ma, nonostante sia più sobrio di Sordi, anche Savadori sembra, almeno a Rosi, un elemento non in grado di sopportare la drammaticità di una storia come quella che si intravvede ne I Magliari. Troppo forte, forse, il suo legame con la commedia, con il cinema leggero. La scena finale, nella quale Mario lascia la signora Mayer, è vista ripetutamente attraverso una vetrata di un bar. La coppia di amanti, in procinto di separarsi, è seduta ad un tavolo, e Rosi alterna normali inquadrature dei due a visioni dall’esterno, attraverso un vetro che riflette le immagini del porto. Immagini faticosamente comprensibili, tra la scena d’interni e il riflesso sul vetro. Sembra quasi che la pellicola sia stata esposta due volte ma, in questo caso, considerato lo sviluppo della trama, non si tratta di una simbolica addizione di due vicende che confluiscono quanto un bivio in cui la storia si sta dividendo. Da una parte andrà la traccia drammatica, con la signora Mayer a fare la mantenuta del marito; dall’altra quella più leggera, con Mario che ritorna in Italia. E Totonno? Sordi, scaricato dalla trama, non se ne dà certo pensiero. Da solo, in automobile, parla a ruota libera, tra sé e sé e/o con gli spettatori, che a lui questo basta e avanza. E per decenni basterà anche al cinema italiano.
Nessun commento:
Posta un commento