1335_IL DADO E' TRATTO (Le rouge est mis). Francia, 1957; Regia di Gilles Grangier.
C’è un passaggio, ne Il dado è tratto – film polar di Gilles Grangier – che rivela l’indole tutta francese per il dettaglio realistico, anche non strettamente legato alla trama. Louis (Jean Gabin) si trova al margine di una strada di campagna, quando passa un gruppo di ciclisti. Uno di questi buca una gomma e si ferma, subito imitato dai compagni: Louis si intrattiene per un attimo con i ciclisti, giusto il tempo che la gomma venga sistemata. Questo passaggio non ha alcun rilievo nella storia; del resto, nemmeno la vacca che si trova sul carro legata all’auto e che Louis e i suoi complici rubano, ha un significato particolare. Semplicemente, i quattro banditi hanno la necessità di cambiare l’auto e si fermano in una fattoria, prendendo l’unico veicolo disponibile. Perché il polar è sì la versione transalpina – e posteriore di qualche anno – dei noir americani, ma rimane un genere prettamente francese, anzi, del cinema francese. Il dado è tratto è un classico polar: Grangier, il regista, non ha alcuna ambizione autoriale, o almeno non se ne scorgono dalla sua regia. Si limita a mettere in scena la sua storia e i suoi attori; per quel che riguarda la macchina da presa, la gestisce con sapienza e discrezione, senza sbavature ma nemmeno particolari guizzi. Il risultato è un film che funziona perfettamente, per via della professionalità del suo autore, ma anche grazie alla classe dei suoi interpreti. Jean Gabin non ha alcun bisogno di presentazione e, all’epoca, aveva già alle spalle oltre cinquanta film, tra cui alcuni capolavori. Inoltre era l’elemento di riferimento per il genere specifico, per cui non aveva praticamente più nemmeno bisogno di recitare.
Jean Gabin, ne Il dado è tratto, è Jean Gabin, e il nome del personaggio è solo un dettaglio. Al suo fianco Lino Ventura, già affermato ma ancora alle prime armi, è un attore che diventerà un’altra icona indelebile dei polizieschi francesi. Nel film di Grangier, l’attore italiano è Pepito, un criminale violento e spesso fuori controllo. Dopo il saggio – Luois – e il violento – Pepito – a completare la banda mancano il vigliacco – Frédo (Paul Frankeur) – e il comprimario – Raymond (Jean Bérard). Ma un ruolo più significativo ce l’hanno Pierre (Marcel Bozzuffi), fratello minore di Louis, e la bella Hélène (Annie Girardot), estetista che arrotonda facendo la squillo. Louis e i suoi compari conducono una doppia vita assai redditizia: hanno esistenze normali, regolari, con famiglie e attività professionali, attivi perfino negli investimenti finanziari; salvo recuperare i capitali necessari con rapine in cui si dimostrano professionisti del crimine, efficienti e spietati.
In particolare Louis, è stimato uomo d’affari, figlio premuroso dell’anziana madre nonché paterno fratello maggiore di Pierre. Addirittura arriva a schiaffeggiare la poco rispettabile Hélèna, in quanto donna di facili costumi, intimandole di lasciar perdere il fratello, perdutamente infatuato dell’avvenente figliola. Louis, il fratellone così protettivo, quando poi veste i panni del gangster, è un criminale freddo e determinato. Gli altri della banda sono meno abili, nel gestire questa ipocrita doppia faccia comportamentale, a cominciare da Pepito, che sembra sempre sul punto di far fuori, col coltello o col mitra, il primo che sgarri. Ad un certo punto qualcuno sgarra per davvero: dopo un colpo particolarmente efferato, la polizia ha ricevuto un’informazione e Louis è stato pizzicato. Pepito, ormai braccato, si convince che a cantare sia stato Pierre, che aveva inavvertitamente ascoltato alcuni loro discorsi. In realtà ha parlare è stato Frédo, crollato dopo l’assalto al furgone trasporta-valori che era finito in tragedia. Pierre, naturalmente, si è rifugiato da Hélène che, seppur non sia certo un’anima candida, cerca di confortarlo. Intanto, nell’androne del palazzo, arrivano congiuntamente Louis e Pepito, per la resa dei conti a cui nessuno dei due sopravviverà. Ancora una volta, il saggio Louis, opera la scelta migliore: se c’è da morire, che sia almeno per salvare il fratello. A suo modo, un lieto fine. Degno di un polar, insomma.
Annie Girardot
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