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domenica 18 ottobre 2020

SFIDA ALL'O.K. CORRAL

652_SFIDA ALL'O.K. CORRAL (Gunfight at O.K. Corral). Stati Uniti, 1957. Regia di John Sturges.

Ispirandosi ad un articolo di George Scullin, il regista John Sturges voleva forse lasciar intendere una maggior attinenza al vero del suo Sfida all’OK corral in merito ai fatti narrati, la famosa sparatoria tra gli sceriffi fratelli Earp e la banda Clanton, rispetto all’illustre precedente film, il capolavoro fordiano Sfida infernale. Ma questo è probabilmente vero solo nell’aderenza ad alcuni dettagli storici, che la pellicola di Sturges si premura di rispettare; la sostanza è però che, nel complesso, si tratta di un’altra interpretazione altrettanto libera, e quasi altrettanto valida, rispetto al citato capolavoro di John Ford. Sfida all’OK corral è un lungometraggio lungamente girato in interni, perlopiù tra le camere d’albergo, i saloon, le prigioni o gli uffici dello sceriffo, raramente in semplici abitazioni e, quando capita, capita che siano quelle di dichiarati banditi come i Clanton. La civiltà non sembra quindi aver portato troppi benefici, nell’ovest; le città teatro delle vicende mostrate sono tre: Fort Griffin, Texas, dove Wyatt Earp (Burt Lancaster, come sempre granitico, ma è il caso di dirlo?) conosce Doc Holliday (un Kirk Douglas ambiguamente malsano come solo lui può essere); Dodge City, Kansas, dove i due diventano amici; Tombstone, Arizona, luogo della famosa sparatoria. Le scene ambientate negli spazi angusti delle tre città sono intervallate da splendide immagini dell’arida prateria del sud ovest; sembra evidente che non siano stati scelti, per questi stacchi alle riprese urbane, i più tipici e classici scenari western, ovvero quelli della Monument Valley. Le distese di pascoli di erba secca, con le loro linee orizzontali e gli sconfinati cieli, fanno da perfetto contraltare alle ambientazioni delle tre città di frontiera; funzione a cui le aspre alture delle mese della Monument Valley non avrebbero invece risposto. 

Questo contrasto tra natura e civiltà ha una linea di confine, l’ingresso all’area urbana, che in tutti e tre i casi corrisponde al cimitero: quando si arriva alla civiltà, la prima cosa che si incontra è la morte. E la morte è la fida compagna di uno dei due protagonisti del film, quel Doc Holliday a cui la compagna Kate (Jo Van Fleet) ricorda a più riprese che ha i giorni contati. In effetti Doc è gravemente malato di tbc e, forse proprio la consapevolezza dell’imminente fine, lo spinge a rischiare continuamente la vita in duelli con la pistola o col coltello. Quindi la morte accompagna Doc in modo duplice: lo divora dall’interno mentre l’uomo non esista ad affrontarla a viso aperto, come nel duello d’apertura. E il legame tra morte e civiltà è rinforzato dal fatto che Doc Holliday è una persona istruita; deve infatti il soprannome all’essere un dentista. Dall’altro piatto della bilancia c’è Wyatt, che è un uomo di legge, e che prova a contenere gli eccessi violenti di Doc: se non vi riesce nel primo atto della storia, quello che si svolge a Fort Griffin, avrà successo a Dodge City, dove l’amico perderà l’orgoglio e la donna pur di non tradire la parola data allo sceriffo. Paradossalmente, nel terzo e conclusivo atto, quello di Tombstone, Doc dovrà infrangere il suo impegno a non ricorrere alla violenza proprio per soccorrere Earp, in evidente difficoltà nello scontro con i Clanton. Insomma, la violenza è parte integrante della civiltà, sembra dirci Sturges, e non c’è modo di evitarla. Il clima plumbeo generale che assume la vicenda è dato da questi sviluppi oltre che dalle tante scene ad alta tensione, e non solo nei duelli virili. 

Tra Doc e Kate c’è più di un alterco, spesso con la donna disperata e l’uomo in preda alla nevrosi (Douglas strepitoso); inoltre, le scene dei paesaggi aperti, anche grazie alle magistrali musiche di Dimitri Tionkin, pur se allentano la sensazione claustrofobica dell’ambientazione urbana, la mettono in risalto per contrasto. In questo stesso senso funziona la presenza nel film di una superba Rhonda Fleming che interpreta Laura, una formidabile giocatrice d’azzardo. La sua entrata in scena è sottolineata dagli stessi personaggi nel film come un’apparizione fuori dalla realtà quotidiana (e in questo stesso modo lavora l’inevitabile paragone con la povera Jo Van Fleet); Laura entra subito in collisione con Wyatt, che ne rimane presto invaghito; le scene romantiche si svolgono opportunamente in un’ambientazione terza, rispetto sia alla civiltà delle cittadine dove si svolgono i fatti, che alla prateria degli stacchi tra un’ambientazione cittadina e l’altra. Infatti le scene in cui si innamorano, (e per la verità pure quella in cui si lasciano), sono ambientate in una sorta di bosco; come fossero una parte estranea del film. In effetti è inusuale l’utilizzo di un’attrice del calibro della Fleming, che compare a film già ben inoltrato per avere una storia con il protagonista, ma lo lascia quasi subito e sparisce dallo schermo. E’ chiaro che nel classico canovaccio sarebbe previsto almeno il ricongiungimento tra l’eroe la sua bella dopo la sparatoria ma, se questo in pratica non avviene, viene però citato a parole da Doc, che assicura l’amico che la donna lo sta aspettando in California. La sua assenza dallo schermo in quei frangenti è però tanto lampante quanto ne erano evidenti, in precedenza, la chioma rossa o la presenza scenica. Dobbiamo quindi fidarci della parola di un pistolero, giocatore d’azzardo, malato e ubriacone, per sperare in un lieto fine. 


    















Jo Van Fleet



Rhonda Fleming
















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