331_STELLA DI FUOCO (Flaming Star).Stati Uniti, 1960. Regia di Don Siegel.
I titoli di testa di Stella
di Fuoco, scorrono sulle note di Flaming
Star, una sontuosa ballata cantata nientemeno che da Elvis Presley. Del
resto Elvis è anche il protagonista del film di Don Siegel. Stiamo parlando ovviamente
di un western, ma la presenza del Re del
Rock’n Roll non è cosa da passare inosservata: si tratterà di un film con
forte influenza musicale, è facile supporre. In effetti, pochi minuti di
pellicola ed ecco Elvis imbracciare la chitarra per intonare l’allegra A cane and a high starched collar. Del
resto, il leggendario colonnello Parker, onnipresente manager del cantante, era
convinto che in ogni film del suo protetto ci dovessero essere almeno una
decina di pezzi musicali. Pare che Siegel, per questo Flaming Star fosse riuscito a contenere la deriva musicale
inserendo solo quattro canzoni; in questo senso le due che aprivano il film
costituivano già metà di quanto previsto. In realtà vennero girate due versioni
del lungometraggio, una con le sole due canzoni citate e un’altra con le
quattro previste; da parte sua Elvis era d’accordo con il regista di evitare di
alleggerire troppo con gli intermezzi musicali il tono drammatico e
particolarmente pessimista del film. Inoltre, ad una proiezione di prova, il
pubblico scoppiò a ridere quando Elvis intonò Summer Kisses, winter tears nel campo dei pellerossa kiowa, e fu
quindi chiaro che se le due canzoni iniziali non guastavano affatto, il resto
della cupa storia mal si sposava con ulteriori esibizioni canore.
Perché, in
effetti, Stella di fuoco è un bel
film, pregno, forse anche eccessivamente cupo ma, a conti fatti, giustificato
in questo dal punto di vista del protagonista, che per una volta, anche in
ambito hollywoodiano, è almeno in parte di sangue pellerossa. Certo, le ragioni
degli indiani sono state molto spesso ribadite dai western classici sin dagli
anni ‘50 e ci sono già stati da quei tempi alcuni casi di protagonisti indiani
in questi film: ma questo è Elvis Presley. E va subito detto che, in questo ruolo
drammatico e molto intenso, Elvis sorprende un po’ tutti, in prima istanza
proprio se stesso.
Il passaggio più drammatico comincia con Pacer (il
personaggio da lui interpretato) che vuole addirittura uccidere il dottore del
paese, reo di aver ritardato il suo intervento causando la morte di sua madre
(nel film la mitica e ancora bellissima Dolores del Rìo). Pacer è un meticcio e
la morte della madre kiowa è la goccia che fa traboccare il vaso
dell’intolleranza subita in tutti quegli anni: ancora più convincente della
reazione rabbiosa è, da parte di Elvis, l’immediatamente successiva confessione
accusatoria a Rosa (Barbara Eden), la fidanzata del fratello Clint (Steve
Forrest), che da sempre lo ha discriminato. Incerto di fronte alla difficoltà
recitativa di questo passo della sceneggiatura, il celebre cantante aveva dato
in pegno la sua fiammante Rolls Royce a Siegel, fintanto che non fosse stato in
grado di recitarlo compiutamente, dal moto furioso alla dichiarazione mista di
umiliazione, risentimento e amore deluso. Lo stesso regista fu ben lieto di
restituire in tempi brevi l’auto ad Elvis a fronte della prestazione attoriale
pienamente soddisfacente di questi.
Nel complesso il film è quindi molto valido
e forse nella considerazione generale successiva ha, per assurdo, pesato un po’
la presenza di Elvis come protagonista: il rischio di consideralo il tipico
prodotto musicale confezionato per sfruttare la notorietà del Re del Rock’n Roll è evidente. E’ un
peccato, perché Elvis è un bravo attore e, pettinatura anni ’50 a parte, è anche
credibile come meticcio; in generale è tutto il cast ad essere all’altezza (oltre ai
citati manca da segnalare almeno il solido John McIntire). La storia è molto
buona e certamente non può essere considerata tirata via in nessun passaggio: Clair Huffaker scrisse il soggetto
velocemente in pochi giorni ma, in seguito, con Nunnally Johnson ci lavorò
sopra sei mesi per cavarne una sceneggiatura soddisfacente. Ovviamente Don
Siegel è una garanzia in regia e se c’è da fargli un appunto, è aver fatto
ricorso un po’ troppo spesso alla fotografia oscurata per simulare le scene in
penombra, ma è una cosa da poco. Incuriosisce, piuttosto, il fatto che venga
risolta la questione ‘privata’ della famiglia di Pacer mentre venga lasciata in
sospeso la ribellione dei kiowas. Tuttavia, è lecito pensare che non ci siano
troppe speranze di successo per le ragioni degli indiani, non solo perché questo
è Storia ma anche perché, nello specifico del film, la vicenda simbolicamente
in primo piano si conclude per loro con una negazione di ogni futuro, sia nella
figura della madre che in quella di Pacer stesso che, come meticcio, portava
intrinsecamente con sé la speranza di una pacifica convivenza tra culture
diverse. Nessuno spazio, quindi, per gli indiani e ancor meno per chi, come
Pacer, rappresentava in prima persona che era possibile una risposta diversa
dalla sostanziale eliminazione fisica dei nativi come soluzione finale. E
vedendo Stella di fuoco, si può
concludere che nemmeno ci fosse stato un idolo come Elvis tra le fila degli
indiani, sarebbe servito a salvarli.
Dolores Del Rio
Barbara Eden
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