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giovedì 11 aprile 2019

STELLA DI FUOCO

331_STELLA DI FUOCO (Flaming Star).Stati Uniti, 1960. Regia di Don Siegel.

I titoli di testa di Stella di Fuoco, scorrono sulle note di Flaming Star, una sontuosa ballata cantata nientemeno che da Elvis Presley. Del resto Elvis è anche il protagonista del film di Don Siegel. Stiamo parlando ovviamente di un western, ma la presenza del Re del Rock’n Roll non è cosa da passare inosservata: si tratterà di un film con forte influenza musicale, è facile supporre. In effetti, pochi minuti di pellicola ed ecco Elvis imbracciare la chitarra per intonare l’allegra A cane and a high starched collar. Del resto, il leggendario colonnello Parker, onnipresente manager del cantante, era convinto che in ogni film del suo protetto ci dovessero essere almeno una decina di pezzi musicali. Pare che Siegel, per questo Flaming Star fosse riuscito a contenere la deriva musicale inserendo solo quattro canzoni; in questo senso le due che aprivano il film costituivano già metà di quanto previsto. In realtà vennero girate due versioni del lungometraggio, una con le sole due canzoni citate e un’altra con le quattro previste; da parte sua Elvis era d’accordo con il regista di evitare di alleggerire troppo con gli intermezzi musicali il tono drammatico e particolarmente pessimista del film. Inoltre, ad una proiezione di prova, il pubblico scoppiò a ridere quando Elvis intonò Summer Kisses, winter tears nel campo dei pellerossa kiowa, e fu quindi chiaro che se le due canzoni iniziali non guastavano affatto, il resto della cupa storia mal si sposava con ulteriori esibizioni canore. 

Perché, in effetti, Stella di fuoco è un bel film, pregno, forse anche eccessivamente cupo ma, a conti fatti, giustificato in questo dal punto di vista del protagonista, che per una volta, anche in ambito hollywoodiano, è almeno in parte di sangue pellerossa. Certo, le ragioni degli indiani sono state molto spesso ribadite dai western classici sin dagli anni ‘50 e ci sono già stati da quei tempi alcuni casi di protagonisti indiani in questi film: ma questo è Elvis Presley. E va subito detto che, in questo ruolo drammatico e molto intenso, Elvis sorprende un po’ tutti, in prima istanza proprio se stesso. 

Il passaggio più drammatico comincia con Pacer (il personaggio da lui interpretato) che vuole addirittura uccidere il dottore del paese, reo di aver ritardato il suo intervento causando la morte di sua madre (nel film la mitica e ancora bellissima Dolores del Rìo). Pacer è un meticcio e la morte della madre kiowa è la goccia che fa traboccare il vaso dell’intolleranza subita in tutti quegli anni: ancora più convincente della reazione rabbiosa è, da parte di Elvis, l’immediatamente successiva confessione accusatoria a Rosa (Barbara Eden), la fidanzata del fratello Clint (Steve Forrest), che da sempre lo ha discriminato. Incerto di fronte alla difficoltà recitativa di questo passo della sceneggiatura, il celebre cantante aveva dato in pegno la sua fiammante Rolls Royce a Siegel, fintanto che non fosse stato in grado di recitarlo compiutamente, dal moto furioso alla dichiarazione mista di umiliazione, risentimento e amore deluso. Lo stesso regista fu ben lieto di restituire in tempi brevi l’auto ad Elvis a fronte della prestazione attoriale pienamente soddisfacente di questi.


Nel complesso il film è quindi molto valido e forse nella considerazione generale successiva ha, per assurdo, pesato un po’ la presenza di Elvis come protagonista: il rischio di consideralo il tipico prodotto musicale confezionato per sfruttare la notorietà del Re del Rock’n Roll è evidente. E’ un peccato, perché Elvis è un bravo attore e, pettinatura anni ’50 a parte, è anche credibile come meticcio; in generale è  tutto il cast ad essere all’altezza (oltre ai citati manca da segnalare almeno il solido John McIntire). La storia è molto buona e certamente non può essere considerata tirata via in nessun passaggio: Clair Huffaker scrisse il soggetto velocemente in pochi giorni ma, in seguito, con Nunnally Johnson ci lavorò sopra sei mesi per cavarne una sceneggiatura soddisfacente. Ovviamente Don Siegel è una garanzia in regia e se c’è da fargli un appunto, è aver fatto ricorso un po’ troppo spesso alla fotografia oscurata per simulare le scene in penombra, ma è una cosa da poco. Incuriosisce, piuttosto, il fatto che venga risolta la questione ‘privata’ della famiglia di Pacer mentre venga lasciata in sospeso la ribellione dei kiowas. Tuttavia, è lecito pensare che non ci siano troppe speranze di successo per le ragioni degli indiani, non solo perché questo è Storia ma anche perché, nello specifico del film, la vicenda simbolicamente in primo piano si conclude per loro con una negazione di ogni futuro, sia nella figura della madre che in quella di Pacer stesso che, come meticcio, portava intrinsecamente con sé la speranza di una pacifica convivenza tra culture diverse. Nessuno spazio, quindi, per gli indiani e ancor meno per chi, come Pacer, rappresentava in prima persona che era possibile una risposta diversa dalla sostanziale eliminazione fisica dei nativi come soluzione finale. E vedendo Stella di fuoco, si può concludere che nemmeno ci fosse stato un idolo come Elvis tra le fila degli indiani, sarebbe servito a salvarli. 




Dolores Del Rio




Barbara Eden



       

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