337_ROMA A MANO ARMATA .Italia, 1976. Regia di Umberto Lenzi.
Dopo che
Milano, praticamente per tutti i primi anni settanta, era stata il luogo
prediletto per il poliziottesco, l’intuizione di Marino Girolami di
ambientare nella capitale le gesta del commissario Betti in Roma violenta,
spostò l’attenzione dei produttori sulla città eterna. Non che fosse la prima
volta, visto che già nel 1972 uno dei precursori del poliziesco
all’italiana, La polizia ringrazia di Steno, era ambientato
sul Tevere. Ma il cuore del genere
era a Milano, unica città della penisola ad avere le caratteristiche
metropolitane moderne per riprendere il poliziesco americano, che il poliziottesco,
come da intuibile anche dalla definizione, in un certo senso scimmiottava. Un
po’ a sorpresa, visto che Marino Girolami non era Di Leo, Lenzi o
Martino, Roma violenta fece un vero botto al botteghino, anche
per la perentoria interpretazione di Maurizio Merli. Il cinema italiano di genere, sempre attento a fiutare la
pista giusta, mise subito uno dei suoi assi al lavoro nella capitale e, Umberto
Lenzi, chiamato a dirigere Roma a mano armata, sforna un autentico
gioiello. Il regista nato a Massa Marittima, per un’operazione in prima istanza
smaccatamente così di cassetta, decide un po’ a sorpresa di fare le
cose in grande stile. Se si deve sfruttare la scia del successo di Roma
violenta, tanto vale ingaggiarne il protagonista; e già che ci siamo, che
sia nello stesso ruolo. Maurizio Merli è quindi il commissario Tanzi che è una
versione uguale ma ancora più estrema del commissario Betti visto all’opera nel
film di Girolami. Ma Lenzi non si accontenta: per il secondo personaggio
positivo è chiamato il bravissimo Giampiero Albertini che, tra le altre cose,
era stato la spalla più significativa in un'altra serie di
film del poliziesco all’italiana, quelli di ‘Mark il poliziotto’ (Albertini
compare in Mark il poliziotto e Mark colpisce ancora entrambi
di Stelvio Massi e con Franco Gasparri protagonista).
La carica umana di Albertini è fondamentale in Roma a mano armata per bilanciare la durezza del commissario Tanzi. Da notare che Lenzi promuove Albertini, in genere relegato a ruoli di mero contorno, affidandogli un personaggio importante come Caputo, che rappresenta appunto il lato meno estremista della lotta al crimine, ma che è anche nominalmente commissario tanto quanto lo stesso Tanzi. E in un film che è ‘capitale’ (non solo per l’ambientazione, ma anche per l’ambizione) manca ancora un cattivo coi fiocchi, e quindi ecco nientemeno che Tomas Milian, mostro sacro del cinema di genere italiano, sia con gli spaghetti-western ma già anche con i poliziotteschi. Il suo ruolo, Moretto detto il gobbo, è un personaggio spietato e memorabile e verrà sostanzialmente ripescato da Lenzi ne La banda del gobbo. Milian possiede già un registro interpretativo riconosciuto, facendo coesistere l’azione più dura e il tono sguaiatamente comico, ed è questo che è chiamato a fare in Roma a mano armata e, visto il tenore della pellicola, deve farlo senza lesinare ma piuttosto enfatizzando la sua prova, oltretutto calandosi anche fisicamente nel ruolo del menomato.
Il resto del cast è composto dai classici attori specializzati in questo genere di film: Luciano Catenacci è Gerace, Carlo Alighiero un avvocato della malavita, Carlo Gaddi è l’autista dell’ambulanza e Aldo Barberito è il maresciallo Pogliana; e chi come Biagio Pellegri (nel ruolo di Savelli) non ha ancora un curriculum specifico, è comunque adeguato e diventerà in seguito uno dei volti noti del genere. Sulla scelta dei ruoli ancora un paio di considerazioni che certificano l’attenzione di Lenzi al suo film: la protagonista femminile è la ventiduenne Maria Rosaria Omaggio nei panni della fidanzata di Tanzi, Anna.La Omaggio , carina e
delicata, è al suo esordio sullo schermo e, oltre a rispettare le consegne
del poliziottesco, (che non ostenta quasi mai la bellezza femminile
come fa, ad esempio, il thriller
all’italiana), fornisce un personaggio discreto, di buone intenzioni ma
inadeguato al contesto, a cui la verginità cinematografica dell’attrice
certifica la scarsa preparazione a far fronte ad una situazione così violenta.
Qui Lenzi sembra aggiungere una considerazione implicita: nel finale, Anna,
scossa dagli avvenimenti, preferisce lasciare Roma (e Tanzi) per tornare a
Milano. Come dire che la città che era stata al centro del poliziesco all’italiana per il suo essere la più adatta come
ambientazione cinematografica, sorta di set naturale, non era però l’unica dove
la violenza fosse largamente diffusa ne quella dove fosse più cruenta, anzi.
Sul cast manca da affrontare il lavoro di Lenzi sul riferimento alle parentele del poliziottesco: se Milian garantisce un’assonanza con gli spaghetti western (in fondo, il suo personaggio tipico è trasversale ai due generi), va segnalata la presenza di Ivan Rassimov (Parenzo) vera e propria icona nei ruoli del cattivo nei thriller all’italiana. Ma ben più rilevante è la presenza di un vero mito di Hollywood come Arthur Kennedy: l’attore interpreta il vice questore Luini, ed è il responsabile di tutte le indagini del film.
Un po’ come se Lenzi cercasse la referenza per il cinema di genere italiano presso una star che ha recitato per John Ford, Fritz Lang e Anthony Mann, riconoscendo, implicitamente, il debito del movimento nostrano nei confronti di Hollywood. Tutto questo evidenzia la matrice metalinguistica del film, del resto già suggerita dal nome del protagonista, Tanzi, che suona molto simile a Lenzi, come ad indicare che il regista intenda fare il personale punto della situazione. Perché questo filone di pellicole, aspramente condannato dalla critica e dai benpensanti, ha le sue ragioni e anche le pertinenti giustificazioni per la violenza mostrata sullo schermo. Sulla violenza enfatizzata quasi a stilizzarne la forma per disinnescarne la deriva pericolosa, valgono in primo luogo i riferimenti al western all’italiana, che al tempo vantava una decennale esperienza nel merito. Oltre alla presenza di Milian, c’è almeno una scena del commissario Tanzi in puro stile western, con Merli che si getta a terra e spara centrando in testa lo sfaccendato Stefano alla guida di una Dino Ferrari. Questo annoiato benestante nullafacente è interpretato da Stefano Patrizi, che aveva un solo film all’attivo, in un ruolo tutto sommato simile sebbene in un contesto ovviamente diverso. Il film era Gruppo di famiglia in un interno, ultimo lavoro di Luchino Visconti e, visto che l’attore ripete grosso modo quel personaggio (e dal nome uguale: semplicemente Stefano, senza cognome), possiamo intendere probabile anche il riferimento di Lenzi ad un assoluto maestro del cinema italiano. La cosa non è del tutto gratuita, nell’ambito della riflessione sul cinema di genere che opera Lenzi in Roma a mano armata, visto che Visconti, con la sua sferzata melodrammatica ai tempi di Senso (e in parte già da Bellissima) contribuì in modo cruciale nel riportare l’attenzione del movimento cinematografico del nostro paese su posizioni narrativamente più popolari rispetto al neorealismo.
Ritornando ai riferimenti più diretti presenti nell’opera di Lenzi, il western all’italiana è ulteriormente richiamato dai riferimenti scatologici, delegati prevalentemente in modo quasi scontato al gobbo: prima deve andare al bagno e lo dice in modo molto genuino, e in seguito addirittura ingoia e poi evacua una pallottola, cavandoci un motto che ricorda moltissimo quelli degli spaghetti. Il tema scatologico, davvero onnipresente nel western all’italiana, sembra lasciar intendere che siamo arrivati a ‘fine ciclo’, nel senso che gli spaghetti rappresentano l’ultimo stadio possibile per il genere: in parte cercando di giustificare una certa degenerazione dei temi rispetto alla nobiltà dei classici. E’ forse a questo aspetto che si richiama Lenzi per la nostrana e certamente estrema versione del cinema poliziesco. Ancora al western all’italiana, ma soprattutto alla sua ultima deriva farsesca (ad esempio quella dei film di Trinità) riportano i suoni enfatizzati delle scazzottare, anche qui davvero sopra le righe, con Tanzi che da solo sistema un nugolo di avversari nel club dei monarchici manco fosse Bud Spencer.
Sempre in tema di iperviolenza, in questo caso nella versione più truce, c’è qualche passaggio che fa riferimento al cosiddetto giallo, il thriller all’italiana, di cui proprio Lenzi è uno dei massimi artefici. Come si vede, Lenzi mette tantissima carne al fuoco, in un film che evidentemente intende in modo molto personale: la cosa è possibile anche perché la trama è costruita come una sorta di mosaico, composto da tanti frammenti, che si incastrano in modo spesso clamoroso, ottimizzando in questo modo i tempi. E’ evidente che questa è un’ulteriore stilizzazione della narrazione: Lenzi conosce come funziona un racconto realistico, ma in Roma a mano armata utilizza un registro che, se analizzassimo il soggetto e la sceneggiatura senza aver visto il film, da un punto di vista della dinamica degli avvenimenti, sarebbe ideale per una storia di Topolino (ovviamente al netto della violenza). Tanti sono gli intrecci forzati e poco credibili delle trame, alcuni dei quali clamorosi: ad esempio, per puro ‘caso’ il maresciallo Pogliana ha lavorato nell’impianto di condizionamento proprio di quella banca in cui vi sono asserragliati i criminali con gli ostaggi; un altro ‘caso’ fa capitare Tanzi, mentre sta svolgendo un’indagine su Savelli, sulla strada dove è fermato da un uomo che è appena stato aggredito e la cui fidanzata è stata stuprata; oppure, mentre cerca di trovare la figlia di un ex collega, coinvolta in un giro di droga, investe (letteralmente) uno scippatore, sventando in modo piuttosto eccessivo l’evento criminale. Quest’ultimo è un passaggio esagerato perfino in una trama che pur ostenta il suo essere artificiosa, ma lo è volutamente e infatti viene sottolineato da Caputo quando sopraggiunge e si vede il Tanzi coinvolto anche in questo scontro.
Lenzi ha però la mano caldissima, per cui tutto quanto passa in modo se non credibile, perlomeno plausibilissimo in un poliziottesco, che è poi uno degli scopi del regista: dimostrare che il poliziesco all’italiana non è un documentario ma un genere di finzione e, come tale, può e deve prendersi le sue libertà. Ma il cinema di genere non è un trastullo per cineasti intellettuali, qui la forma è contenuto, per cui Lenzi utilizza questa trama, che ha volutamente costruito con tutti questi incastri forzati, per riflettere su quegli argomenti che solitamente, tramite critica e stampa, mettono sotto accusa il poliziesco all’italiana. Perché ad un certo punto, un paio di scippatori, arrestati da Tanzi, vengono poi rilasciati subito da Anna, consulente psicologa per la procura, che si lascia intenerire dalla giovane età e dalla condizione sociale dei due. Bene, successivamente Tanzi si ritroverà ancora tra i piedi i due ragazzi, stavolta morti sul colpo in un incidente, in seguito ad un altro tentativo di scippo. Le parole le dice il commissario, ma è evidente la riflessione del regista: forse rimetterli sulla strada per compassione non è stata la scelta migliore per i due minorenni.
Considerazioni più riflessive come questa sono comunque inserite tra i tanti passaggi di pura azione, visto che il regista si premura di non trascurare nessun cliché del genere: non mancano i forsennati inseguimenti in auto oppure a piedi, a perdifiato, su tetti pericolanti. Così come non manca la scena allo sfasciacarrozze, dove l’autore ritorna a più riprese, in un caso, coinvolgendo la povera Anna, con una sequenza da puro thriller. Il cimitero delle auto è uno dei luoghi simbolo del poliziottesco, perché rappresenta in modo simbolico la fine di uno dei prodotti per eccellenza della civiltà metropolitana, l’automobile. E’ forse un uso simile al tema scatologico degli spaghetti: tra i rottami delle vetture possiamo vedere la fine di una società che la troppa violenza finirà per distruggere al pari delle auto accartocciate. In ogni caso, per questo Roma a mano armata che sembra essere un film con una maggior consapevolezza rispetto ai soliti polizieschi nostrani, Lenzi, oltre ai classici elementi simbolici del genere, utilizza i tantissimi risvolti di una storia in cui succedono un sacco di eventi criminali (rapine con morti, rapine con ostaggi, scippi, stupri) per mostrare non tanto che sia necessaria la linea dura, quanto che non ci siano alternative.
La presenza del commissario Caputo è indubbiamente l’ammissione, da parte del regista, che sarebbe auspicabile poter amministrare la giustizia senza ricorrere ai metodi di Tanzi. Solo che questo è impossibile nella società italiana dei settanta tanto che, nel drammatico finale, sarà proprio Caputo sul punto di lasciarsi andare al giustizialismo, e sarà fermato, per assurdo, proprio da Tanzi che, evidentemente, non vuole che l’amico si trasformi in un giustiziere alla sua maniera. Ovviamente l’esitazione causata dall’intervento del collega sarà fatale a Caputo e Tanzi sarà costretto a risolvere la questione nell’unico modo che conosce. Ma Lenzi, con questo finale, ci dice che il personaggio veramente memorabile è Caputo, un poliziotto umano e comprensivo che meriterebbe un mondo migliore, un mondo degno di lui. Purtroppo, l’Italia degli anni di piombo, si meritava i commissari Tanzi o Betti. E i poliziotteschi non erano la causa della violenza diffusa, ma una conseguenza, un tentativo di dare una risposta; certo, forse sbagliata. Ma l’unica che sembrava possibile mentre ogni giorno la cronaca raccontava dei rappresentanti della legge che cadevano sotto i colpi dei mitra di delinquenti e terroristi.
Maria Rosaria Omaggio
La carica umana di Albertini è fondamentale in Roma a mano armata per bilanciare la durezza del commissario Tanzi. Da notare che Lenzi promuove Albertini, in genere relegato a ruoli di mero contorno, affidandogli un personaggio importante come Caputo, che rappresenta appunto il lato meno estremista della lotta al crimine, ma che è anche nominalmente commissario tanto quanto lo stesso Tanzi. E in un film che è ‘capitale’ (non solo per l’ambientazione, ma anche per l’ambizione) manca ancora un cattivo coi fiocchi, e quindi ecco nientemeno che Tomas Milian, mostro sacro del cinema di genere italiano, sia con gli spaghetti-western ma già anche con i poliziotteschi. Il suo ruolo, Moretto detto il gobbo, è un personaggio spietato e memorabile e verrà sostanzialmente ripescato da Lenzi ne La banda del gobbo. Milian possiede già un registro interpretativo riconosciuto, facendo coesistere l’azione più dura e il tono sguaiatamente comico, ed è questo che è chiamato a fare in Roma a mano armata e, visto il tenore della pellicola, deve farlo senza lesinare ma piuttosto enfatizzando la sua prova, oltretutto calandosi anche fisicamente nel ruolo del menomato.
Il resto del cast è composto dai classici attori specializzati in questo genere di film: Luciano Catenacci è Gerace, Carlo Alighiero un avvocato della malavita, Carlo Gaddi è l’autista dell’ambulanza e Aldo Barberito è il maresciallo Pogliana; e chi come Biagio Pellegri (nel ruolo di Savelli) non ha ancora un curriculum specifico, è comunque adeguato e diventerà in seguito uno dei volti noti del genere. Sulla scelta dei ruoli ancora un paio di considerazioni che certificano l’attenzione di Lenzi al suo film: la protagonista femminile è la ventiduenne Maria Rosaria Omaggio nei panni della fidanzata di Tanzi, Anna.
Sul cast manca da affrontare il lavoro di Lenzi sul riferimento alle parentele del poliziottesco: se Milian garantisce un’assonanza con gli spaghetti western (in fondo, il suo personaggio tipico è trasversale ai due generi), va segnalata la presenza di Ivan Rassimov (Parenzo) vera e propria icona nei ruoli del cattivo nei thriller all’italiana. Ma ben più rilevante è la presenza di un vero mito di Hollywood come Arthur Kennedy: l’attore interpreta il vice questore Luini, ed è il responsabile di tutte le indagini del film.
Un po’ come se Lenzi cercasse la referenza per il cinema di genere italiano presso una star che ha recitato per John Ford, Fritz Lang e Anthony Mann, riconoscendo, implicitamente, il debito del movimento nostrano nei confronti di Hollywood. Tutto questo evidenzia la matrice metalinguistica del film, del resto già suggerita dal nome del protagonista, Tanzi, che suona molto simile a Lenzi, come ad indicare che il regista intenda fare il personale punto della situazione. Perché questo filone di pellicole, aspramente condannato dalla critica e dai benpensanti, ha le sue ragioni e anche le pertinenti giustificazioni per la violenza mostrata sullo schermo. Sulla violenza enfatizzata quasi a stilizzarne la forma per disinnescarne la deriva pericolosa, valgono in primo luogo i riferimenti al western all’italiana, che al tempo vantava una decennale esperienza nel merito. Oltre alla presenza di Milian, c’è almeno una scena del commissario Tanzi in puro stile western, con Merli che si getta a terra e spara centrando in testa lo sfaccendato Stefano alla guida di una Dino Ferrari. Questo annoiato benestante nullafacente è interpretato da Stefano Patrizi, che aveva un solo film all’attivo, in un ruolo tutto sommato simile sebbene in un contesto ovviamente diverso. Il film era Gruppo di famiglia in un interno, ultimo lavoro di Luchino Visconti e, visto che l’attore ripete grosso modo quel personaggio (e dal nome uguale: semplicemente Stefano, senza cognome), possiamo intendere probabile anche il riferimento di Lenzi ad un assoluto maestro del cinema italiano. La cosa non è del tutto gratuita, nell’ambito della riflessione sul cinema di genere che opera Lenzi in Roma a mano armata, visto che Visconti, con la sua sferzata melodrammatica ai tempi di Senso (e in parte già da Bellissima) contribuì in modo cruciale nel riportare l’attenzione del movimento cinematografico del nostro paese su posizioni narrativamente più popolari rispetto al neorealismo.
Ritornando ai riferimenti più diretti presenti nell’opera di Lenzi, il western all’italiana è ulteriormente richiamato dai riferimenti scatologici, delegati prevalentemente in modo quasi scontato al gobbo: prima deve andare al bagno e lo dice in modo molto genuino, e in seguito addirittura ingoia e poi evacua una pallottola, cavandoci un motto che ricorda moltissimo quelli degli spaghetti. Il tema scatologico, davvero onnipresente nel western all’italiana, sembra lasciar intendere che siamo arrivati a ‘fine ciclo’, nel senso che gli spaghetti rappresentano l’ultimo stadio possibile per il genere: in parte cercando di giustificare una certa degenerazione dei temi rispetto alla nobiltà dei classici. E’ forse a questo aspetto che si richiama Lenzi per la nostrana e certamente estrema versione del cinema poliziesco. Ancora al western all’italiana, ma soprattutto alla sua ultima deriva farsesca (ad esempio quella dei film di Trinità) riportano i suoni enfatizzati delle scazzottare, anche qui davvero sopra le righe, con Tanzi che da solo sistema un nugolo di avversari nel club dei monarchici manco fosse Bud Spencer.
Sempre in tema di iperviolenza, in questo caso nella versione più truce, c’è qualche passaggio che fa riferimento al cosiddetto giallo, il thriller all’italiana, di cui proprio Lenzi è uno dei massimi artefici. Come si vede, Lenzi mette tantissima carne al fuoco, in un film che evidentemente intende in modo molto personale: la cosa è possibile anche perché la trama è costruita come una sorta di mosaico, composto da tanti frammenti, che si incastrano in modo spesso clamoroso, ottimizzando in questo modo i tempi. E’ evidente che questa è un’ulteriore stilizzazione della narrazione: Lenzi conosce come funziona un racconto realistico, ma in Roma a mano armata utilizza un registro che, se analizzassimo il soggetto e la sceneggiatura senza aver visto il film, da un punto di vista della dinamica degli avvenimenti, sarebbe ideale per una storia di Topolino (ovviamente al netto della violenza). Tanti sono gli intrecci forzati e poco credibili delle trame, alcuni dei quali clamorosi: ad esempio, per puro ‘caso’ il maresciallo Pogliana ha lavorato nell’impianto di condizionamento proprio di quella banca in cui vi sono asserragliati i criminali con gli ostaggi; un altro ‘caso’ fa capitare Tanzi, mentre sta svolgendo un’indagine su Savelli, sulla strada dove è fermato da un uomo che è appena stato aggredito e la cui fidanzata è stata stuprata; oppure, mentre cerca di trovare la figlia di un ex collega, coinvolta in un giro di droga, investe (letteralmente) uno scippatore, sventando in modo piuttosto eccessivo l’evento criminale. Quest’ultimo è un passaggio esagerato perfino in una trama che pur ostenta il suo essere artificiosa, ma lo è volutamente e infatti viene sottolineato da Caputo quando sopraggiunge e si vede il Tanzi coinvolto anche in questo scontro.
Lenzi ha però la mano caldissima, per cui tutto quanto passa in modo se non credibile, perlomeno plausibilissimo in un poliziottesco, che è poi uno degli scopi del regista: dimostrare che il poliziesco all’italiana non è un documentario ma un genere di finzione e, come tale, può e deve prendersi le sue libertà. Ma il cinema di genere non è un trastullo per cineasti intellettuali, qui la forma è contenuto, per cui Lenzi utilizza questa trama, che ha volutamente costruito con tutti questi incastri forzati, per riflettere su quegli argomenti che solitamente, tramite critica e stampa, mettono sotto accusa il poliziesco all’italiana. Perché ad un certo punto, un paio di scippatori, arrestati da Tanzi, vengono poi rilasciati subito da Anna, consulente psicologa per la procura, che si lascia intenerire dalla giovane età e dalla condizione sociale dei due. Bene, successivamente Tanzi si ritroverà ancora tra i piedi i due ragazzi, stavolta morti sul colpo in un incidente, in seguito ad un altro tentativo di scippo. Le parole le dice il commissario, ma è evidente la riflessione del regista: forse rimetterli sulla strada per compassione non è stata la scelta migliore per i due minorenni.
Considerazioni più riflessive come questa sono comunque inserite tra i tanti passaggi di pura azione, visto che il regista si premura di non trascurare nessun cliché del genere: non mancano i forsennati inseguimenti in auto oppure a piedi, a perdifiato, su tetti pericolanti. Così come non manca la scena allo sfasciacarrozze, dove l’autore ritorna a più riprese, in un caso, coinvolgendo la povera Anna, con una sequenza da puro thriller. Il cimitero delle auto è uno dei luoghi simbolo del poliziottesco, perché rappresenta in modo simbolico la fine di uno dei prodotti per eccellenza della civiltà metropolitana, l’automobile. E’ forse un uso simile al tema scatologico degli spaghetti: tra i rottami delle vetture possiamo vedere la fine di una società che la troppa violenza finirà per distruggere al pari delle auto accartocciate. In ogni caso, per questo Roma a mano armata che sembra essere un film con una maggior consapevolezza rispetto ai soliti polizieschi nostrani, Lenzi, oltre ai classici elementi simbolici del genere, utilizza i tantissimi risvolti di una storia in cui succedono un sacco di eventi criminali (rapine con morti, rapine con ostaggi, scippi, stupri) per mostrare non tanto che sia necessaria la linea dura, quanto che non ci siano alternative.
La presenza del commissario Caputo è indubbiamente l’ammissione, da parte del regista, che sarebbe auspicabile poter amministrare la giustizia senza ricorrere ai metodi di Tanzi. Solo che questo è impossibile nella società italiana dei settanta tanto che, nel drammatico finale, sarà proprio Caputo sul punto di lasciarsi andare al giustizialismo, e sarà fermato, per assurdo, proprio da Tanzi che, evidentemente, non vuole che l’amico si trasformi in un giustiziere alla sua maniera. Ovviamente l’esitazione causata dall’intervento del collega sarà fatale a Caputo e Tanzi sarà costretto a risolvere la questione nell’unico modo che conosce. Ma Lenzi, con questo finale, ci dice che il personaggio veramente memorabile è Caputo, un poliziotto umano e comprensivo che meriterebbe un mondo migliore, un mondo degno di lui. Purtroppo, l’Italia degli anni di piombo, si meritava i commissari Tanzi o Betti. E i poliziotteschi non erano la causa della violenza diffusa, ma una conseguenza, un tentativo di dare una risposta; certo, forse sbagliata. Ma l’unica che sembrava possibile mentre ogni giorno la cronaca raccontava dei rappresentanti della legge che cadevano sotto i colpi dei mitra di delinquenti e terroristi.
Maria Rosaria Omaggio
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