339_MR. KLEIN (Monsieur Klein). Francia, Italia, 1976. Regia di Joseph Losey.
Le prime due sequenze di Mr.
Klein, film di Joseph Losey, ci forniscono già molti elementi che poi la
trama, che si dipana non troppo chiaramente, porterà a compimento nel corso di
una storia che sembra viaggiare ben presto su oscuri binari. Non è solo il
tremendo finale al Velodromo d’Inverno di Parigi, quando il gioco implacabile
messo in moto da Losey e dallo sceneggiatore Franco Solinas viene allo
scoperto, a togliere ogni speranza al protagonista, il Monsieur Klein del titolo
(Alan Delon, bravissimo anche stavolta). Quasi increduli assistiamo alla fine
della sua ricerca, che lo porta sul treno verso Auschwitz insieme agli altri rastrellati. D’accordo, è precisamente
in quel sonnambolico finale che si compie il destino di questo personaggio, ma
i germi della sua caduta ci sono già tutti in quel, a prima vista anche
confortevole, inizio del racconto che, quando lascia strada al proseguo del
film, vede insinuarsi una crepa che poi si apre via via lungo il resto della
storia. Ma prima della vicenda di Mr. Klein, c’è una lunga sequenza, un incipit
vero e proprio, anzi praticamente un cortometraggio, in apparenza slegato al
resto del film. C’è una donna, completamente svestita, ed un dottore che la
esamina come se stesse analizzando le caratteristiche fisiche di un animale su
un libro di scienza. Il freddo distacco del dottore stride a contrasto con
l’intimità della povera signora messa totalmente a nudo. Impressiona, ed è un
fatto non così consueto, notare come anche un commento poco lusinghiero ai
fianchi della donna, non infastidisca tanto per l’assenza di riguardo, ma per
il suo essere asettico, senza emozioni.
La signora, probabilmente un’ebrea, non
suscita disprezzo nel medico, un nazista, in quanto poco appetibile di aspetto
(cosa che darebbe fastidio per il suo essere non giustificabile ma sarebbe
almeno comprensibile come dinamica) ma più in generale per il suo non
appartenere alla presunta razza ariana. La sequenza lascia sgomenti perché
mette in chiaro il razzismo nazista, molto più di altre ambientate nei lager,
dove è evidente che ci sia anche un trasporto emotivo che offuschi l’intelletto
dei carnefici, laddove dottore e infermiera sono invece calmi, lucidi,
coscienti, perfino educati. Con l’eredità di questo scioccante preambolo, il
racconto del nostro protagonista comincia.
Perché di ebrei che devono vendere i propri beni per scappare dalla Francia occupata ce ne saranno molti, certo; però, mandarli proprio da Klein… Un uomo scaltro, si è detto. Che poi è un modo di definire una persona scorretta che riesce a fare il suo senza dare nell’occhio cavandoci sempre il massimo. Ad esempio, quando deve pagare il quadro, sempre nel suddetto intensissimo inizio di Mr. Klein, il nostro va in bagno, e vi trova la ragazza che nella scena precedente era nel letto. Allora ce la rimanda, con la promessa di raggiungerla presto. Una promessa d’amore; carnale, d’accordo, ma sempre d’amore si tratta. Un po’ falsa, in realtà; oddio, magari l’amore si farà anche, e qui sta la scaltrezza di Klein; perché il vero motivo per cui allontana la ragazza dal bagno è che lì tiene i soldi per pagare il quadro e non vuole rivelare il nascondiglio alla compagna. Una promessa d’amore che nasconde un atto di sfiducia: eccolo qui, rivelato nel suo intimo, il borghese Robert Klein. Insomma, nonostante la situazione rosea del protagonista che vive in una casa lussuosa, con la sua vestaglia di seta, accanto una ragazza molto gradevole (è Juliette Berto), nell’atmosfera si avverte già una sensazione di disagio, forse anche per la discrepanza tra la soddisfazione di Klein per l’affare concluso che si specchia nel fastidio del venditore.
Poi, quando questi se ne sta andando, c’è l’impiccio del giornale sotto la porta, un bollettino della comunità ebraica, che lì per lì non si capisce bene cosa voglia dire, se non che c’è qualcos’altro che non quadra. Klein sembra quasi preoccupato e adesso è il venditore ebreo a sembrare soddisfatto. Mentre si congeda dal padrone di casa, la sua voce ricorda per un attimo quella del diavolo che ha appena acquistato l’anima dell’incauto Faust. A quel punto Klein si volta vedendosi riflesso nello specchio dell’atrio; Losey stacca allontanando la macchina da presa, ma tenendo sempre l’obiettivo sull’uomo che si guarda smarrito.
E’ forse in questo momento, in questo ‘stacco’ che ci mostra la stessa scena ma da un punto di vista diverso che varchiamo con Klein la soglia dello specchio? Chissà, intanto, le parole della descrizione di un avvoltoio, raffigurato su un tappeto od un arazzo che abbiamo già visto sui titoli di testa, introducono la successiva scena in un’asta di opere d’arte, ma per un attimo sembrano piuttosto riferite al nostro protagonista. Il quale proprio lì, nella sala d’aste, cercherà di prendere le distanze dalla malasorte, ma non è certo la sfortuna che verrà a cercarlo inesorabilmente per fargli pagare, simbolicamente, il suo opportunismo.
Perché da quel momento in poi, Losey ci guida con la sua macchina da presa che si snoda nei corridoi delle case lussuose, dei comandi di polizia, degli appartamenti fatiscenti, a volte ripresi addirittura in soggettiva, quasi a farci vivere in prima persona una caccia proprio a quell’uomo al di là dello specchio, la ricerca del nostro Robert Klein all’altro Robert Klein. Quello ebreo, quello a cui era destinato il bollettino di informazione, quello che, non trovandosi, la polizia cominciava a dubitare che esistesse e ci fosse un solo Robert Klein, il nostro. Ma il sospetto diveniva terribilmente subito un altro: era quindi ebreo il protagonista del film? Nel finale, al Velodromo d’inverno, mentre il suo avvocato cerca di dirgli che è tutto a posto, che hanno trovato i documenti che certificano il suo non essere ebreo, l’altoparlante tra gli altri chiama distintamente il nome Robert Klein.
Ed eccolo là, finalmente, sotto quel braccio alzato ci dovrebbe essere lui, il suo omonimo che, in effetti, ha anche una fisionomia simile. Ma in mezzo alla folla è irraggiungibile; e poi, in quella confusione, chi può dire che sia davvero quello, il suo doppio ebreo? Piuttosto, sulle tribune, con un cappotto con la stella di David cucita sul petto, non sembra esserci il venditore del quadro, quello di inizio film? E’ proprio lui, e dallo sguardo vigile sembra Mefistofele venuto per riscuotere il suo credito. Intanto, il nostro Robert Klein non riesce a raggiungere il Robert Klein ebreo ma viene trascinato dalla folla sul vagone per Auschwitz. Ma non si lamenta, non protesta; forse, ha capito che non troverà un ebreo di nome Robert Klein perché, per una sorta di espiazione osmotica, ha già scoperto di essere lui stesso. Sul vagone, appena dietro di lui, si intravvede ancora il venditore del quadro, che non potrebbe certo essere lì, visto che stava sulle tribune e non tra la folla. Ma forse è davvero una sorta di diavolo, e quando il dialogo di quella trattativa si torna a sentire di nuovo, abbiamo la certezza che il debito di Mr. Klein verrà saldato.
Jeanne Moreau
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