330_IL PONTE SUL FIUME KWAI (The bridge on the River Kwai).Regno Unito, Stati Uniti, 1957. Regia di David Lean.
A guardarlo oggi, sorprende un po’ che Il ponte sul fiume Kwai di David Lean sia stato quel grande
successo, tra l’altro pluripremiato con ben 7 Oscar. Non che sia brutto, sia
chiaro; ma il filmone che ci si potrebbe attendere, considerati la fama che
l’accompagna e il prestigio del regista, sullo schermo non sembra esserci (più).
Un buon film, divertente, con un accattivante motivo fischiettato dai soldati
inglesi che ormai è celeberrimo (la Colonel Bogey March) che certamente aiuta ma, a parte
l’elettrizzante finale, il resto del racconto filmico scorre un po’ troppo senza
particolari sussulti. E dire che è un film di guerra, o ci assomiglia per via
dell’ambientazione, e si sa che il cinema bellico è sempre appassionante; ma
qui di azione vera e propria ce n’è poca. In effetti i nostri (gli inglesi)
saranno impiegati nella costruzione di un ponte (quello del titolo) più che in
qualche adrenalinica impresa militare. Lean è già un bravo regista ed è
mosso dai lodevoli intenti di mostrare l’assurdità della guerra; però forse
finisce per esagerare, imbastendo quasi una farsa che, almeno a vederla oggi, non
sembra riuscire completamente a tenere sottotraccia, finendo per svilire un po’
troppo la trama avventurosa che dovrebbe trainare la storia. Il film si apre nel
campo di prigionia nipponico con il protagonista americano, il militare Shears
(William Holden) intento a patteggiare con un ufficiale giapponese per poter
marcar visita. Lean è inglese (e parte della produzione anche) e quindi appare
chiaro che non saranno gli yankee gli eroi di questo film ma, come detto, i
sudditi della corona.
Ovvero gli uomini del tenente colonnello Nicholson: Alec
Guinnes, premio Oscar per questa sua parte, anche se rimane il dubbio che faccia un po’ troppo il verso a se stesso, e
non in modo del tutto consapevole. I britannici irrompono sulla scena
perfettamente inquadrati e fischiettanti il motivetto citato, e ben presto
dimostreranno la superiorità dell’efficienza inglese ai propri carcerieri
asiatici. Il tono del storia oscilla continuamente tra il film di propaganda
post-bellica, (coi giapponesi mostrati come ottusi e inefficienti al cospetto
dei più evoluti occidentali) e, se non proprio quello di una aperta farsa,
un’opera dal tenore di una commedia.
Il fatto che questo compito, quello di
alleggerire l’atmosfera, sia deputato all’unico americano della storia, il
personaggio di Holden, insospettisce un po’: mentre gli inglesi sono ligi alla
disciplina (pure in un campo di prigionia), lo yankee si trastulla con le belle
indigene incontrate durante la fuga o con l’infermiera del presidio militare.
Ma è pur vero che Shears, l’americano, quando è prigioniero fa quello che ci si
aspetti faccia un soldato: non collabora col nemico e cerca di scappare,
riuscendovi. Di contro, Nicholson, alla lunga, si dimostra ben più ottuso del
comandante giapponese del campo di prigionia, il colonnello Saito (Sessue
Hayakawa).
La sua incapacità di vedere oltre il regolamento (o alla Convenzione
di Ginevra, tirata in ballo di continuo soprattutto per difendere i privilegi
degli ufficiali) diventa paradossale nel finale, quando di fatto si comporta
come un soldato nemico. Lean, che a quel punto sembra aver scoperto il suo
gioco, non gli concede nemmeno un finale eroico, ma una comica gag finale che,
almeno nelle apparenze, salva capra e cavoli. Nell’insieme, quindi, il film ha
una sua forza polemica, una verve sarcastica anche graffiante, ma la veste
classica dell’opera rimane molto ingombrante. Sono forse troppi i minuti in cui
si finisce per credere che il tema del film sia il braccio di ferro tra
Nicholson e Saito, e che questa gara di ottusità abbia un qualche senso. Il
sospetto è che questi aspetti siano stati accolti con favore, dal pubblico del
tempo, per il loro incanalarsi nel classico cinema di propaganda che celebrava
i vincitori della Seconda Guerra Mondiale. A vedere Il ponte sul fiume Kwai oggi, la satira contro l’ottusità militare,
giapponese o inglese che sia, forse sembra più chiara, ma la sponda classica
del film perde un po’ della sua forza.
E la verve ironica di Lean è forse
troppo annacquata dalle escursioni in tono da commedia di Shears, che in fin
della fiera è il classico qualunquista costretto dalle circostanze a morire da
eroe. Che, a guardar bene, è una bellissima definizione dell’eroe yankee per
antonomasia. Insomma, altro che balle, Il
ponte sul fiume Kwai è un sagace trattato saggistico sulle forze in campo
nel fronte del pacifico: giapponesi, inglesi e americani, ce n’è per tutti. Allora
avevamo ragione a ricordarcelo come un grande film.
Ann Sears
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