296_A CUORE FREDDO ; Italia 1971; Regia di Riccardo Ghione.
Dovrebbe esserci una sorta di regola che bocci senza
appello i film dove manca una anche minima possibilità evolutiva della
situazione mostrata; che senso ha, infatti, raccontare una società malata in
ogni suo minimo dettaglio, senza speranza in quanto abitata da individui senza
il barlume di un valore positivo? E’ una provocazione, sia chiaro, perché si
tratta di un discorso chiaramente astratto e soggettivo. Però, se ci fosse tale
regola, A cuore freddo, sorprendente dramma di Riccardo Ghione, la scamperebbe
per un soffio. E precisamente per quel soffio che, quasi impercettibilmente,
sfiora il viso bello ma duro di Silvana (una Rada Rassimov fredda ma di grande
impatto visivo), poco prima del terribile momento culminante della pellicola.
Silvana ha attirato il marito Enrico (Enrico Maria Salerno, bravissimo) nella
fatale trappola ma, all’ultimo momento utile, alla donna viene un ripensamento,
e chiede al consorte se preferisce lasciar stare e andare direttamente alla
fattoria, evitando l’appuntamento letale. In quel primo piano sul volto della
Rassimov si legge un turbamento, il barlume di umanità di cui si diceva prima;
è solo un attimo ma ribalta completamente la valenza dell’intero film. Perché
ci dice, e lo dice anche alla stessa Silvana, che se ne renderà compiutamente
conto solo nel criptico finale, che c’è una possibilità diversa, una strada ‘giusta’
da seguire, anche se tutto il contesto è corrotto.
A cuore freddo è
un film drammatico che rovista nelle acque torbide della società sessantottina,
tra l’ambiente borghese e quello della contestazione; Ghione dimostra però una
solida mano alla regia, superiore alla media dei prodotti simili.
Anche perché
è coadiuvato alle musiche dal bravo Stelvio Cipriani (sua anche la canzone Lionesse), mentre per il ricercato montaggio si affida ad un valido regista
come Fernando Cerchio, che proprio in sala
di montaggio si è fatto le ossa. Il film è infatti infarcito da tantissimi flashback molto funzionali al ritmo
della narrazione; notevole poi, il carico di suspense che si addensa per la
scena cruciale, tanto che si potrebbe dire che il genere drammatico della pellicola sconfini abbondantemente nel thriller. Si diceva che la storia del
film è un classico dell’epoca della contestazione sessantottina: lui (Enrico)
ha i soldi, fa il finanziere, e prende in moglie lei (Silvana), che invece è
bella ma non ha una lira, e fa la hippie.
L’incontro è fortuito, Enrico si innamora della bellezza della ragazza, lei
della possibilità di passare ad una vita agiata; ma non c’è amore, e nemmeno sesso,
e quindi la cosa naufraga in fretta. Silvana si fa quindi un amante, uno
sbarbatello che in un certo senso viene dal suo ambiente, quello della
contestazione giovanile; con la differenza che ha fatto carriera, ha un appartamento suo e non vive nella comune come gli altri rivoluzionari. Un po’ simbolicamente,
per campare fa il pittore e dipinge quadri che raffigurano banconote: in fondo
anche lui insegue quel denaro che a parole tanto disprezza (‘lo sterco del diavolo’), al punto che
pure Silvana si accorge della superficialità dei suoi propositi. Un personaggio
insulso, buono, soltanto perché sa
far andare il pennello, del resto è
un pittore.
La battutaccia non è fuori luogo, perché il film ha comunque una
forte sponda erotica: la scena in cui Enrico si masturba è abbastanza esplicita
(e comunque spiazzante), a voler indicare, anche da questo punto di vista, la chiusura su se stessa tipica della
borghesia. Tornando al tema del denaro, centrale nel film come evidenziato dai
bei titoli di testa, i ragazzi della comunità hippie lo disprezzano davvero: ma
non per rilievi etici, ma perché si tratta di barbari senza arte né parte per
cui la carta moneta rappresenta forse
qualcosa di concettualmente troppo impegnativo. La ragazza del gruppo, pur se
spregevole come gli altri, dimostra almeno uno straccio di senso pratico quando
raccatta una banconota da diecimila lire e se la infila in tasca. Certo,
aggiunge il furto alla lista dei suoi crimini, ma almeno dimostra un briciolo
di cervello, che ai suoi compari manca invece totalmente: bestie della peggior specie. Silvana non è affatto migliore degli
altri personaggi di questo sconfortante contesto, anche perché si macchia del
crimine peggiore, ma è comunque la protagonista del film.
E non a caso è lei
l’unica che manifesta aperto disagio per la situazione: ha sposato un uomo che
non ama, vorrebbe farsi una vita romanticamente felice, con l’amante. Le va
riconosciuto che, pur se è sedotta dalla ricchezza di Enrico, non pianifica il
crimine per i soldi o le proprietà, ma per andarsene con il suo amico pittore.
Enrico invece è meschino, accetta i tradimenti della moglie perché con lei non
riesce a spuntarla col ricatto economico, con cui è abituato a sistemare le sue
faccende. Il pittore è un tipo insulso e gli hippie sono feccia della peggior
specie; il quadro dei personaggi di A
cuore freddo è servito. Manca solo la madre di Enrico, che si vede soltanto
per un attimo, in un primo momento mentre guarda fuori dal vetro di una portafinestra.
L’alito le si condensa sulla superficie vetrata, un altro passaggio simbolico,
lei, borghese, al caldo, guarda con
sprezzante distacco verso l’esterno più freddo. Quando Enrico arriva e le
presenta Silvana, questa predisposizione si concretizza nella gelida e
scostante accoglienza riservata alla nuora, di evidente differente estrazione
sociale. Nel finale, quando Silvana si reca alla villa, che Enrico le aveva
intestato e ora è completamente sua, non entra in casa, ma si ferma sul vetro,
l’alone che si appanna ricorda la precedente scena e forse lei stessa si
riconosce nell’aridità umana della suocera. Il viso premuto che le schiaccia il
naso e le scopre i denti, la fa sembrare la maschera della Morte. Come a dire che, nella
società irrimediabilmente malata e decadente dell’Italia dei primi anni
settanta, l’unico barlume di umanità lo troviamo, per assurdo, proprio nella Morte.
Rada Rassimov
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