305_IL CORRIERE - THE MULE (The mule). Stati Uniti 2018; Regia di Clint Eastwood.
C’è una scelta, fatta dal protagonista di Il corriere – The Mule di Clint
Eastwood, nel finale, che emoziona fino alle lacrime. Non che sia una novità,
Eastwood come regista sa come emozionare, basti pensare a Million Dollar Baby e a quanti fazzoletti finirono inzuppati nelle
sale di mezzo mondo. Ma questo caso è un po’ diverso, perché Earl Stone
(interpretato dallo stesso Eastwood, invecchiato, ma ancora sornione), riesce
ad emozionare non attraverso il versante sentimentale, ma facendo leva
sull’assunzione delle proprie responsabilità per espiare le colpe di cui si è macchiato. La
moralità intesa quasi come sentimento, quindi. Moralità: di questi tempi merce
rara, verrebbe da dire; ma in modo un po’ qualunquista. Perché, almeno stando a
quanto mostrato dall’ultimo bel film di Eastwood (che diviene bellissimo grazie
al citato passaggio finale) non è che le cose siano mai andate granché bene
anche prima. Il nostro protagonista è un veterano della guerra di Corea, è
Clint Eastwood e per di più gli ricordano un paio di volte che assomiglia a
James Stewart. Serve altro per capire che il nostro rappresenta l’eroe americano medio? Il Mr. Stone va a Chicago della situazione,
insomma (parafrasando il capolavoro Mr.
Smith va a Washington di Frank Capra, 1939, naturalmente con Jimmy
Stewart). Il film, che è scandito dai viaggi dell’anziano corriere dallo stato
della Georgia a Chicago, ha l'aspetto di un road-movie;
il genere che ha un po’ preso le veci del western al giorno d’oggi. Earl,
divenuto corriere per il cartello dei narcotrafficanti per necessità, fa il suo
lavoro, non crea problemi, non fa domande e non si pone troppi scrupoli.
Nel
suo lavoro è una brava persona, oltre che affidabile; per quanto un po’ naif,
ma ha anche 90 anni, si può certamente definire professionale. Difatti diviene
il migliore, tanto da essere ricevuto con tutti gli onori dal boss in persona,
il señor Laton (Andy Garcia). E’ davvero un tipico gringo, penseranno i messicani del cartello: fa quello che deve
fare, con calma e tranquillità, sbrogliando con il sangue freddo necessario
ogni intoppo. Quello che abbiamo sempre visto fare agli eroi americani del
cinema, che forse, viene proprio da chiederselo guardando Il corriere – The Mule, si curavano della forma del loro lavoro
(che sia costruire un forte in territorio indiano o conquistare militarmente
una postazione nemica in Corea) ma non si ponevano mai il problema se quello
che stessero facendo fosse giusto o sbagliato.
Un po’ come Earl che evita, dopo
averlo fatto una volta, di guardare cosa c’è dentro le borse che trasporta;
meglio non saperlo ed eseguire gli ordini, portare a casa il risultato. Parlando
di borse o valige da trasportare, al cinema, non può non venire in mente il
McGuffin hitchcockiano, quello per
cui la borsa è un mero pretesto per mettere in scena una storia. Centra poco,
qui, se non per dire che gli americani forse hanno troppo spesso usato questa
strategia anche nella vita reale, dove quello che trasporti conta eccome. E se
nella valigia c’è la cocaina, perché tu fai il corriere per i trafficanti di
droga, non importa quanto tu sia bravo o simpatico; non va bene, non va bene
per niente. Non ci siamo caro Earl, non ci siamo proprio. Ma se la capacità di
essere in gamba, e nessuno oggi può dirsi paragonabile ad una leggenda come
Clint Eastwood, non aiuta a salvarsi, dove si può trovare la soluzione?
Nei
rapporti famigliari, come il buon Earl si premura di spiegare al suo rivale,
l’agente della Dea Colin Bates (Bradley Cooper), quando questi si è appena
dimenticato di scrivere alla moglie per una ricorrenza. Ma la forza di Il corriere – The Mule non è che, sul
filo di lana, Earl torna al letto della moglie per assisterla in punto di
morte, lasciando in sospeso un’importantissima consegna. Mannò, quella sarebbe,
in definitiva, l’ennesima occasione sprecata; un atto di eroismo, pagato magari
con la vita ma che non riscatterebbe l’anima di Earl. Certo, un bel gesto, la
moglie che muore contenta, e una dimostrazione della tempra, quando dice ai
trafficanti di fare quello che devono fare, perché lui doveva comunque andare
dalla moglie e non avrebbe portato loro rancore se adesso lo avrebbero fatto
fuori per aver sospeso la consegna a metà dell’opera. Non serviva certo
quest’ennesima dimostrazione per sapere che gli Eastwood o i Jimmy Stewart sono
gente tosta e generosa. No, fin qui siamo dalle parti dell’ottimo film, girato
con maestria dal vecchio leone; ma il finale, quando Earl rifiuta gli alibi
proposti nella difesa al processo dal suo avvocato, e si dichiara colpevole,
quello è il punto cruciale. E lì che, incredibilmente, ci si emoziona per una
questione etica e morale. E’ lì, in quel preciso istante, che il film diventa
un capolavoro, perché trasforma la lezione sul versante famigliare imparata al
letto di morte della moglie, in un’assunzione di responsabilità anche in campo professionale.
Ed è sempre lì, con un’ammissione di colpevolezza senza
scusanti da parte dell’eroe americano per eccellenza, che Clint Eastwood
diventa il più grande di sempre.
Alison Eastwood
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