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giovedì 14 febbraio 2019

LA SFIDA DEL SAMURAI

302_LA SFIDA DEL SAMURAI (用心棒 Yōjinbō). Giappone 1961;  Regia di Akira Kurosawa.

Se mai dovesse esistere a questo mondo un posto dove vige la meritocrazia, questo posto di sicuro non è l’Italia. E questo non è certo una novità. Ma ogni tanto succedono cose che, pur considerando la peculiare condizione italiana, sembrano comunque paradossali. Prendiamo il caso di La sfida del samurai, capolavoro di Akira Kurosawa del 1961. Al tempo Sergio Corbucci lo vide al cinema, informò Sergio Leone che ci ricavò lo splendido Per un pugno di dollari. Per cui, si può ben dire che lo spaghetti western, quella corrente che rivitalizzò il genere dagli anni 60 in poi per quasi vent’anni, si deve alla genialità artistica di Kurosawa. Sorvoliamo sulla scelta dei produttori italiani di Per un pugno di dollari di non pagare i diritti alla Toho, la casa di produzione giapponese del film di Kurosawa; scelta che non ha alcuna giustificazione. Fatto sta che il clamoroso successo del film di Leone portò allo scoperto il meschino (purtroppo non si può usare altro termine, anche se da fan di Leone fa male dirlo) plagio e i nostri produttori furono costretti a pagare il giusto dazio. Ma, e qui arriva la parte più sconcertante, i nostri stessi autori, Sergio Leone o anche il suo collaboratore (e notevole regista) Fernando Di Leo, in seguito persevereranno nell’accusare in modo infantile Kurosawa, reo di essere stato, a sua volta, influenzato dal cinema o dalla cultura occidentale; al tempo si riuscì addirittura a far sparire La sfida del samurai dagli schermi della penisola (ne scrive Aldo Tassone nel volume del Castoro Cinema dedicato al maestro nipponico).
Oblio per eccesso di merito, questo è il classico esempio di meritocrazia italian style.

 In ogni caso, anche il più tollerante degli spettatori non può negare le evidenti similitudini tra la trama di La sfida del samurai e Per un pugno di dollari; per cui molti degli aspetti che in genere tributiamo alle intuizioni di Leone sono effettivamente di Kurosawa. L’eroe senza nome di leoniana memoria, nel film di Kurosawa si chiama Sanjuro (Toshirō Mifune), termine che significa trent’anni; un modo per indicare genericamente l’età del protagonista e non dargli nemmeno un nome vero. Questo Sanjuro arriva nel paese lacerato dalla guerra tra due clan rivali; è abile con la spada, è un ronin, un samurai senza padrone e pur cercando di apparire cinico e disinteressato, decide di fare un po’ di pulizia. Finge quindi di allearsi prima con una fazione poi con l’altra, portando infine all’estreme conseguenze il conflitto; d’accordo qui c’è un rimando al lavoro teatrale di Goldoni Arlecchino servo di due padroni; una citazione e nulla più, ben diversa dal plagio. Nello scontro finale i due clan finiscono per annientarsi; ovviamente il samurai contribuisce alla sua maniera al repulisti. Come si nota, la trama è quella del film di Leone ma lo è anche nei minimi dettagli. Per esempio c’è anche la donna, madre e moglie, aiutata dal protagonista a sottrarsi al giogo dei prepotenti, o il becchino che è l’unico soddisfatto della situazione nel paesino; insomma ci sono tanti particolari che mettono in chiaro come lo spaghetti-western leoniano sia una sorta di copia carbone dell’opera giapponese.


Anche la ricerca di una stilizzazione forte, (questa sì che Leone riuscirà poi ad attuarla in modo personale, come anche farà Morricone alle musiche), è già presente nel film in costume di Kurosawa, sia nella forma che nella storia raccontata. Anzi, nella poetica di Kurosawa lo stile del teatro Nō è un vero marchio di fabbrica, per cui gli attori enfatizzano i movimenti in modo meccanico rimanendo con espressioni imperturbabili, quasi fossero delle marionette. La storia è ambientata nel XVII secolo, durante l’era Tokugawa, un’epoca che, vista le chiusure verso l’esterno e la mancanza di opposizione interna, può essere intesa come una sorta di crepuscolo di quegli ideali a suo modo romantici del Bushido visto al cinema ne I sette samurai, sempre di Kurosawa. 

Il ronin Sanjuro è quindi un eroe (o meglio un anti-eroe) moderno e, più che con il rigido codice d’onore, opera con astuzia e non si fa scrupolo di combattere il suo nemico con le stesse subdole armi, il trucco o l’inganno. Ma è solo il modo di comportarsi che è cambiato, perché le finalità ultime del nostro eroe sono sempre positive; Kurosawa si rende cioè conto che è più credibile mostrare un campione che lotti per la giustizia ma lo faccia in modo più realisticamente votato ad un concreto successo, piuttosto che il classico paladino epico idealizzato. Come si vede l’ardita opera del regista nipponico procede quasi in direzioni opposte: se da un lato offre una stilizzazione visiva, dall’altro ci mostra un eroe più pragmatico, più concreto e, il risultato, piuttosto straniante eppure con una sua peculiare armonia interna, è una delle chiavi del fascino notevole dell’opera. 

Del resto Kurosawa è un maestro nella messa in scena. Il film ha poi un gran ritmo sostenuto dagli scontri di grande livello visivo ed attraversato da una grottesca ironia. Le superbe immagini in bianco e nero sono opera del valido Kazuo Miyagawa, accompagnate dal formidabile commento sonoro di Masaru Satō alla cui base c’è, sorprendentemente, la seconda rapsodia ungherese di Liszt. Forse anche questa contraddizione, una musica della profonda Europa che diviene colonna sonora di un film ambientato quando il Giappone era assolutamente blindato verso il resto del mondo, alimenta l’impressione di vedere gli affascinanti effetti esteriori di una lacerazione interna. Un po’ quello che si doveva vivere in modo fortissimo nel paese del sol levante nei primi anni sessanta, non poi così lontani dalla fine della seconda guerra mondiale e alle prese con la svolta filo occidentale dell’economia del paese.  
E che Kurosawa concretizzò mirabilmente sullo schermo in uno dei sui capolavori, La sfida del samurai.  


    


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