302_LA SFIDA DEL SAMURAI (用心棒 Yōjinbō). Giappone 1961; Regia di Akira Kurosawa.
Se mai dovesse esistere a questo mondo un posto dove vige la
meritocrazia, questo posto di sicuro non è l’Italia. E questo non è certo una
novità. Ma ogni tanto succedono cose che, pur considerando la peculiare condizione
italiana, sembrano comunque paradossali. Prendiamo il caso di La sfida del samurai, capolavoro di
Akira Kurosawa del 1961. Al tempo Sergio Corbucci lo vide al cinema, informò
Sergio Leone che ci ricavò lo splendido Per
un pugno di dollari. Per cui, si può ben dire che lo spaghetti western, quella corrente che rivitalizzò il genere dagli
anni 60 in
poi per quasi vent’anni, si deve alla genialità artistica di Kurosawa.
Sorvoliamo sulla scelta dei produttori italiani di Per un pugno di dollari di non pagare i diritti alla Toho, la casa
di produzione giapponese del film di Kurosawa; scelta che non ha alcuna
giustificazione. Fatto sta che il clamoroso successo del film di Leone portò
allo scoperto il meschino (purtroppo non si può usare altro termine, anche se
da fan di Leone fa male dirlo) plagio e i nostri produttori furono costretti a
pagare il giusto dazio. Ma, e qui arriva la parte più sconcertante, i nostri stessi
autori, Sergio Leone o anche il suo collaboratore (e notevole regista) Fernando
Di Leo, in seguito persevereranno nell’accusare in modo infantile Kurosawa, reo
di essere stato, a sua volta, influenzato
dal cinema o dalla cultura occidentale; al tempo si riuscì addirittura a far
sparire La sfida del samurai dagli
schermi della penisola (ne scrive Aldo Tassone nel volume del Castoro Cinema dedicato al maestro
nipponico).
Oblio per eccesso di merito, questo è il classico esempio di
meritocrazia italian style.
Anche la ricerca di una stilizzazione forte, (questa sì che
Leone riuscirà poi ad attuarla in modo personale, come anche farà Morricone
alle musiche), è già presente nel film in costume di Kurosawa, sia nella forma
che nella storia raccontata. Anzi, nella poetica di Kurosawa lo stile del teatro Nō è un vero marchio di fabbrica,
per cui gli attori enfatizzano i movimenti in modo meccanico rimanendo con
espressioni imperturbabili, quasi fossero delle marionette. La storia è
ambientata nel XVII secolo, durante l’era Tokugawa, un’epoca che, vista le chiusure
verso l’esterno e la mancanza di opposizione interna, può essere intesa come
una sorta di crepuscolo di quegli ideali a suo modo romantici del Bushido visto
al cinema ne I sette samurai, sempre
di Kurosawa.
Il ronin Sanjuro è quindi un eroe (o meglio un anti-eroe) moderno
e, più che con il rigido codice d’onore, opera con astuzia e non si fa scrupolo
di combattere il suo nemico con le stesse subdole armi, il trucco o l’inganno.
Ma è solo il modo di comportarsi che è cambiato, perché le finalità ultime del
nostro eroe sono sempre positive; Kurosawa si rende cioè conto che è più
credibile mostrare un campione che lotti per la giustizia ma lo faccia in modo
più realisticamente votato ad un concreto successo, piuttosto che il classico
paladino epico idealizzato. Come si vede l’ardita opera del regista nipponico
procede quasi in direzioni opposte: se da un lato offre una stilizzazione
visiva, dall’altro ci mostra un eroe più pragmatico, più concreto e, il
risultato, piuttosto straniante eppure con una sua peculiare armonia interna, è
una delle chiavi del fascino notevole dell’opera.
Del resto Kurosawa è un
maestro nella messa in scena. Il film ha poi un gran ritmo sostenuto dagli
scontri di grande livello visivo ed attraversato da una grottesca ironia. Le superbe
immagini in bianco e nero sono opera del valido Kazuo Miyagawa, accompagnate dal
formidabile commento sonoro di Masaru Satō alla cui base c’è,
sorprendentemente, la seconda rapsodia
ungherese di Liszt. Forse anche questa contraddizione, una musica della
profonda Europa che diviene colonna sonora di un film ambientato quando il
Giappone era assolutamente blindato verso il resto del mondo, alimenta
l’impressione di vedere gli affascinanti effetti esteriori di una lacerazione
interna. Un po’ quello che si doveva vivere in modo fortissimo nel paese del sol levante nei primi anni sessanta, non
poi così lontani dalla fine della seconda guerra mondiale e alle prese con la
svolta filo occidentale dell’economia del paese.
E che Kurosawa concretizzò mirabilmente sullo schermo in uno
dei sui capolavori, La sfida del samurai.
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