301_L'ALIBI ERA PERFETTO (Beyond a reasonable doubt). Stati Uniti 1956; Regia di Fritz Lang.
Si dice che Fritz Lang sia rimasto a dir poco deluso dal
risultato finale di questo L’alibi era
perfetto e, conoscendo la ricerca della perfezione del grande regista
austriaco, è anche comprensibile. Pur rimanendo un lungometraggio pregevole, sono
evidenti i limiti di scorrevolezza e fluidità, probabilmente imputabili ai noti
tagli imposti dalla produzione. La potenziale portata dell’opera è così solo
ipotizzabile, in quanto la versione mandata nelle sale è palesemente monca.
Ed è un vero peccato perché il tema era forte ed azzardato,
e sarebbe stato necessario uno sviluppo maggiore, più approfondito, per
risultare davvero convincente. L’idea di Lang, geniale come di consueto, è di
sfruttare, per la sua storia, quella regola nell’ordinamento giudiziario
americano per cui non si possa ripetere un processo per il medesimo reato a
carico di un individuo, una volta che la sentenza sia passata in giudicato. Questo, ipoteticamente,
offre ad un generico colpevole l’opportunità di garantirsi un certificato d’innocenza sfruttando
appunto tale norma. Sarebbe necessario sottoporsi a giudizio, è chiaro, e
quindi andrebbero preventivamente preparate le giuste condizioni. Ovviamente
per essere indagato dovrebbero esserci dei sospetti o delle presunte prove a carico
del soggetto in questione: ma questo impianto accusatorio dovrebbe essere
posticcio, per poter poi essere smontato dalla difesa nel dibattito
processuale. Condizione indispensabile per mantenere a zero i rischi è che il
castello di prove fasulle a carico dell’imputato sia preparato dall’imputato
stesso e astutamente in qualche modo indotto
alla procura.
Il risultato di questa complessa operazione sarebbe
inevitabilmente (o quasi) l’assoluzione dell’imputato e la garanzia di non
venir più processato per lo stesso reato, una volta emessa la sentenza;
qualunque risvolto venisse pur alla luce in seguito. Una strategia complessa ma
che potrebbe essere conveniente se l’imputato fosse colpevole, ovviamente;
oppure avesse le sue buone ragioni.
In ogni modo, se detta così sembra una questione intricata,
figuriamoci in uno sviluppo filmico che ha subito pesanti tagli in sede di
produzione, come appunto è successo ne L’alibi
era perfetto; comunque Lang porta avanti con convinzione il suo discorso e,
nonostante i suddetti tagli, la vicenda nel complesso è comprensibile.
In un
canovaccio simile, il grande regista nato a Vienna può dare un impietoso quadro
della realtà americana: innanzitutto la procura è mostrata nel suo zelo
giustizialista, nella ricerca spasmodica di tutti gli indizi possibili,
immaginabili e immaginari, pur di incastrare l’imputato. Imputato che, lungi
dall’essere innocente, non solo è colpevole ma anche ambiguo, così come non
sembra nemmeno tanto affidabile quella stessa Giustizia che si accanisce contro i malcapitati sottoposti a
giudizio. Nemmeno la stampa ci fa una grande figura, visto che viene mostrato
senza particolare enfasi, e quindi come normale, l’enorme potere di cui dispone
per condizionare l’opinione pubblica a proprio comodo.
Durante la visione il pretesto narrativo è un po’ arduo da
accettare (chi si spaccerebbe per colpevole rischiando la condanna a morte solo
per evidenziare la fallibilità della stessa pena capitale?), sebbene poi, nello
sviluppo del film, ci si rende conto che, a conti fatti, la cosa sia più
credibile di quanto non appaia in prima istanza. Perché uno degli aspetti
comunque eccellenti del film è che lavora contemporaneamente con due sistemi: a prima vista si tratta di una
storia che gioca sulla suspense dovuta al fatto che lo sviluppo al peggio di
certi passaggi rischiosi, sembra
inevitabile.
Tom Garrett (Dana Andrew), scrittore, in accordo con l’editore di
giornale e futuro suocero Austin Spencer (Sidney Blackmer) fa’ in modo di venir
accusato di un atroce delitto. L’anziano giornalista è un attivista che si
batte contro la pena capitale e al momento propizio, poco prima della sentenza,
potrà presentarsi a processo con le prove precostituite dell’innocenza del
giovane, e scongiurarne così la condanna a morte. Andrà così segnare un colpo
sensazionale nella sua campagna contro la pena di morte, mostrandone la
fallibilità. E’ narrativamente evidente e prevedibile (e soprattutto in puro
stile Lang) che sul più bello a Spencer qualcosa andrà storto, e che Garrett
finirà preso in quella trappola che con l’anziano amico aveva ordito ai danni
del procuratore Thompson (Philip Borneuf). Lang riesce a costruire in modo
magistrale la ragnatela narrativa, aggiustando un tassello alla volta, in modo
da non lasciare scampo ai suoi personaggi e allo spettatore; ma intanto, lavora
anche su un piano secondario della trama. Perché tutta l'intreccio narrativo in realtà
poggia su un particolare che è ignoto allo spettatore, e a quasi tutti i
protagonisti del film, e che quando si rivela, oltre ad essere un efficace
colpo di scena in sé, giustifica anche il presupposto più difficile da
accettare nel piano narrativo primario. A conti fatti, la scelta di correre
l’enorme rischio di spacciarsi per omicida, e rischiare di conseguenza la vita,
diventa, grazie a quella sorprendente rivelazione finale, plausibilissima.
Insomma, il film ha potenzialmente tutto per essere un Fritz Lang di qualità: alcune scene, il
carrello sulle celle dei carcerati, ad esempio, sono sublimi; lo sviluppo graduale
ma inesorabile degli eventi, la messa in scena, tutto d’alta scuola. Manca un
po’ di armonia nell’insieme, ma pesano su questo aspetto i tagli della
produzione.
Il cast è all’altezza, si tratta comunque di un solido
prodotto hollywoodiano, ma manca qualcuno che riesca a incidere realmente: Dana
Andrew è bravo, ma forse non abbastanza ambiguo per una simile parte; nemmeno Joan
Fontaine è memorabile, e scivola via senza particolari emozioni.
Quelle le garantisce comunque Fritz Lang.
Joan Fontaine
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