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martedì 12 febbraio 2019

L'ALIBI ERA PERFETTO

301_L'ALIBI ERA PERFETTO (Beyond a reasonable doubt). Stati Uniti 1956;  Regia di Fritz Lang.

Si dice che Fritz Lang sia rimasto a dir poco deluso dal risultato finale di questo L’alibi era perfetto e, conoscendo la ricerca della perfezione del grande regista austriaco, è anche comprensibile. Pur rimanendo un lungometraggio pregevole, sono evidenti i limiti di scorrevolezza e fluidità, probabilmente imputabili ai noti tagli imposti dalla produzione. La potenziale portata dell’opera è così solo ipotizzabile, in quanto la versione mandata nelle sale è palesemente monca.
Ed è un vero peccato perché il tema era forte ed azzardato, e sarebbe stato necessario uno sviluppo maggiore, più approfondito, per risultare davvero convincente. L’idea di Lang, geniale come di consueto, è di sfruttare, per la sua storia, quella regola nell’ordinamento giudiziario americano per cui non si possa ripetere un processo per il medesimo reato a carico di un individuo, una volta che la sentenza sia passata in giudicato. Questo, ipoteticamente, offre ad un generico colpevole l’opportunità di garantirsi un certificato d’innocenza sfruttando appunto tale norma. Sarebbe necessario sottoporsi a giudizio, è chiaro, e quindi andrebbero preventivamente preparate le giuste condizioni. Ovviamente per essere indagato dovrebbero esserci dei sospetti o delle presunte prove a carico del soggetto in questione: ma questo impianto accusatorio dovrebbe essere posticcio, per poter poi essere smontato dalla difesa nel dibattito processuale. Condizione indispensabile per mantenere a zero i rischi è che il castello di prove fasulle a carico dell’imputato sia preparato dall’imputato stesso e astutamente in qualche modo indotto alla procura. 
Il risultato di questa complessa operazione sarebbe inevitabilmente (o quasi) l’assoluzione dell’imputato e la garanzia di non venir più processato per lo stesso reato, una volta emessa la sentenza; qualunque risvolto venisse pur alla luce in seguito. Una strategia complessa ma che potrebbe essere conveniente se l’imputato fosse colpevole, ovviamente; oppure avesse le sue buone ragioni.
In ogni modo, se detta così sembra una questione intricata, figuriamoci in uno sviluppo filmico che ha subito pesanti tagli in sede di produzione, come appunto è successo ne L’alibi era perfetto; comunque Lang porta avanti con convinzione il suo discorso e, nonostante i suddetti tagli, la vicenda nel complesso è comprensibile. 

In un canovaccio simile, il grande regista nato a Vienna può dare un impietoso quadro della realtà americana: innanzitutto la procura è mostrata nel suo zelo giustizialista, nella ricerca spasmodica di tutti gli indizi possibili, immaginabili e immaginari, pur di incastrare l’imputato. Imputato che, lungi dall’essere innocente, non solo è colpevole ma anche ambiguo, così come non sembra nemmeno tanto affidabile quella stessa Giustizia che si accanisce contro i malcapitati sottoposti a giudizio. Nemmeno la stampa ci fa una grande figura, visto che viene mostrato senza particolare enfasi, e quindi come normale, l’enorme potere di cui dispone per condizionare l’opinione pubblica a proprio comodo.
Durante la visione il pretesto narrativo è un po’ arduo da accettare (chi si spaccerebbe per colpevole rischiando la condanna a morte solo per evidenziare la fallibilità della stessa pena capitale?), sebbene poi, nello sviluppo del film, ci si rende conto che, a conti fatti, la cosa sia più credibile di quanto non appaia in prima istanza. Perché uno degli aspetti comunque eccellenti del film è che lavora contemporaneamente con due sistemi: a prima vista si tratta di una storia che gioca sulla suspense dovuta al fatto che lo sviluppo al peggio di certi passaggi rischiosi, sembra inevitabile. 


Tom Garrett (Dana Andrew), scrittore, in accordo con l’editore di giornale e futuro suocero Austin Spencer (Sidney Blackmer) fa’ in modo di venir accusato di un atroce delitto. L’anziano giornalista è un attivista che si batte contro la pena capitale e al momento propizio, poco prima della sentenza, potrà presentarsi a processo con le prove precostituite dell’innocenza del giovane, e scongiurarne così la condanna a morte. Andrà così segnare un colpo sensazionale nella sua campagna contro la pena di morte, mostrandone la fallibilità. E’ narrativamente evidente e prevedibile (e soprattutto in puro stile Lang) che sul più bello a Spencer qualcosa andrà storto, e che Garrett finirà preso in quella trappola che con l’anziano amico aveva ordito ai danni del procuratore Thompson (Philip Borneuf). Lang riesce a costruire in modo magistrale la ragnatela narrativa, aggiustando un tassello alla volta, in modo da non lasciare scampo ai suoi personaggi e allo spettatore; ma intanto, lavora anche su un piano secondario della trama. Perché tutta l'intreccio narrativo in realtà poggia su un particolare che è ignoto allo spettatore, e a quasi tutti i protagonisti del film, e che quando si rivela, oltre ad essere un efficace colpo di scena in sé, giustifica anche il presupposto più difficile da accettare nel piano narrativo primario. A conti fatti, la scelta di correre l’enorme rischio di spacciarsi per omicida, e rischiare di conseguenza la vita, diventa, grazie a quella sorprendente rivelazione finale, plausibilissima.
Insomma, il film ha potenzialmente tutto per essere un Fritz Lang di qualità: alcune scene, il carrello sulle celle dei carcerati, ad esempio, sono sublimi; lo sviluppo graduale ma inesorabile degli eventi, la messa in scena, tutto d’alta scuola. Manca un po’ di armonia nell’insieme, ma pesano su questo aspetto i tagli della produzione.
Il cast è all’altezza, si tratta comunque di un solido prodotto hollywoodiano, ma manca qualcuno che riesca a incidere realmente: Dana Andrew è bravo, ma forse non abbastanza ambiguo per una simile parte; nemmeno Joan Fontaine è memorabile, e scivola via senza particolari emozioni.
Quelle le garantisce comunque Fritz Lang.  





         
Joan Fontaine




Barbara Nochols













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