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mercoledì 6 febbraio 2019

FRANK COSTELLO FACCIA D'ANGELO

298_FRANK COSTELLO FACCIA D'ANGELO (Le Samouraï). Francia, Italia 1967;  Regia di Jean-Pierre Melville.

Una cosa sempre difficile da comprendere per lo spettatore è la diffusa abitudine di cambiare i titoli ai film stranieri; ma cosa ne pensano i registi, a questo proposito? Jean-Pierre Melville, autore di quel meraviglioso Frank Costello faccia d’angelo che nel francese originale (e un po’ in mezzo mondo) si intitola piuttosto Le Samouraï, come suo solito non gira intorno all’argomento.‘Il film ha mantenuto il suo titolo (persino) in Giappone’, attacca il regista, ‘mentre in Italia si chiama «Frank Costello faccia d’angelo», solo perché è il nome di un gangster americano! Che farabutti!’ E anche sul nome del suddetto protagonista i nostri distributori sono intervenuti: nell’originale è Jef , mentre nel belpaese è divenuto Frank, in omaggio appunto allo storico malavitoso italoamericano. Un cambio non da poco visto che nell’opera di Melville di gangster mafiosi non ve n’è traccia. Ma va riconosciuto che nel film non si vede neanche il samurai, citato appunto dal titolo originale. Ma, a differenza della semplicistica e spiccia filosofia dei distributori italiani, Melville opera con criterio nelle sue scelte ; il suo criterio, e quindi non certo banale e scontato, semmai spiazzante. Frank Costello faccia d’angelo è un polar, genere che è la declinazione francese del noir tipicamente americano. Ma le caratteristiche di questa corrente transalpina sono talmente peculiari che gli valgono lo statuto di vero e proprio sottogenere, e Melville ne è uno dei più importanti artefici. Lo sfasamento che viene proposto già dal titolo, si cita la figura di un guerriero medioevale giapponese ma poi la storia è ambientata nella Francia contemporanea, è uno degli elementi più caratteristici del polar
Melville si era accorto guardando Giungla d’asfalto di come gli risultasse famigliare un film ambientato in America, e aveva poi approfondito questi aspetti, se vogliamo spurie anticipatrici della globalizzazione culturale, nei suoi lavori, da Le jene del quarto potere, che aveva girato e soprattutto recitato, (quasi a farsi un’idea del posto) direttamente a New York, a Lo spione, con l’ufficio della polizia ricostruito in stile americano ma inserito in un’ambientazione transalpina. Ormai gli esperimenti sotto questo aspetto sono forse finiti, e potremmo concludere che la Francia dei polar è come l’America, ma senza l’America. C’è quindi una sottrazione (del resto questo film è Le Samouraï senza il samurai) alla base del poliziesco alla francese, e lo stile di Melville lo esprime in modo sinteticamente perfetto. Anche la stessa trama racconta di un gangster, perché in fondo il personaggio di Jef Costello (uno straordinario Alain Delon) è fortemente ispirato ai criminali americani, ma a cui manca il tradizionale contesto. Jef è un sicario, ma se i personaggi dei film americani seguono sempre comportamenti logici, Costello ha comportamenti maniacali senza apparente motivazione.
Il film si apre sul furto di un’auto, che non sembra poi strettamente necessario al suo incarico di sicario; è una Citroën DS e il fatto che lui non ne forzi la serratura ma abbia un mazzo con un considerevole numero di chiavi, che prova una ad una fino a trovare quella giusta, suggerisce che sia un ladro di quel particolare modello di vettura. Infatti, nel finale, ancora senza una particolare motivazione all’interno della trama, ruba un'altra Citroën DS, per poi andare a cambiare le targhe, come la volta precedente. Questa operazione di furto dell’auto con sostituzione delle targhe, avviene sempre prima di una missione, per la quale si premura di indossare i guanti bianchi. Un’altra preoccupazione un po’ inutile, o almeno superflua tutte e due le volte mostrate: la prima perché poi getta la pistola usata nel fiume, e quindi l’arma diventa irrecuperabile, la seconda perché si reca all’appuntamento (con la Morte) con la pistola scarica. Riflettendoci, l’idea che ci si fa è che l’uomo abbia comportamenti rituali, eppure la cosa, a prima vista non sembra particolarmente strana o fuori luogo. La trama, se ci si lascia trasportare dal flusso quasi ipnotico del film, sorretto dal carisma magnetico di Delon e dalle atmosfere magicamente illustrate da Melville, sembra infatti plausibile.
In realtà non lo è per nulla: ad esempio, quando Jef torna sul luogo del primo delitto, un cameriere gli dice: “se lei fosse l’uomo che cerca la polizia, si potrebbe dire che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto”, è un’osservazione pertinente, logica, da film americano. E Jef ne è talmente infastidito da uscire subito dal locale; lui non è un killer dei film americani, e Melville vuole farci capire che non è quella la strada da seguire. Nella Parigi filmata a colori quasi come fosse un bianco e nero dalla magistrale fotografia di Henri Decaë, così realistica eppure quasi sospesa, siamo anche noi disorientati come forse è interiormente il protagonista e siamo ben contenti di affidarci alle sue sicure operazioni rituali.

Lo vediamo organizzarsi bene un alibi, sfruttando abilmente una rivalità sentimentale con un altro uomo nei confronti di Jean (Nathalie Delon): dopo il delitto si reca dalla sua amante, e ne esce subito, facendo in modo di incrociare di sfuggita Wiener (Michel Boisrond), che mantiene la stessa ragazza. In seguito, nonostante quest’ultimo dichiari alla polizia di non avere spirito di osservazione, identifica precisamente Jef , (d’altra parte Boisrond è anche un regista, e quindi è naturale che abbia occhio). Probabile che Wiener con la sua deposizione pensi di incastrare il rivale Costello, mentre in realtà gli fornisce un alibi che conferma la falsa testimonianza di Jean, che sostiene infatti che il killer abbia passato la serata in sua compagnia. Questo splendido intreccio narrativo, viene però meno in modo clamoroso per l’assoluta, e un po’ gratuita, convinzione dell’ispettore (François Périer) che il colpevole sia Costello; che di suo aveva già minato il suo stesso lavoro di costruzione dell’alibi, presentandosi a volto scoperto per compiere il delitto. Certo, l’incrocio con la cantante Valérie (Cathie Rosier) era stato casuale e sfortunato; del resto la figura della ragazza rappresenta il destino, o forse la Morte stessa; donna nera (è infatti una donna di colore) che vestita di bianco sembra quasi la sposa simbolicamente ideale per un sicario.
Però, al di là di questo aspetto simbolico, la condotta di Costello era stata a dir poco imprudente, almeno se paragonata alla cura con cui aveva organizzato altri aspetti dell’operazione. Ma non è sulla logica ferrea dell’intreccio che si fonda il cinema di Melville, anzi, sull’esatto opposto: dimostrare che pur in mancanza di una logica narrativa stretta, il complesso della vicenda funzioni ugualmente. La familiarità provata dal regista nel guardare Giungla d’asfalto era un sentimento falso: la Francia di Melville non era ancora (e forse nemmeno lo è ora) come la città americana del film di John Huston e, su questa sorta di illusione, il regista francese costruirà il suo cinema. “Non c’è solitudine più profonda di quella del samurai, tranne quella della tigre nella giungla…” la citazione ad inizio film, spacciata per un verso del Bushido, il codice d’onore dei Samurai e accettata per buona anche in Giappone, è pura invenzione di Melville. Un’altra bugia verosimile.
Secondo Melville, il cinema, per raccontare la verità, ha bisogno di mentire. E, tra tutti i bugiardi, il regista francese è stato di certo uno di quelli che, con le sue storie sospese tra il nostro immaginario e la più cruda realtà, ha meglio espresso il disagio dell’era contemporanea. 



Chaty Rosier



Nathalie Delon







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