295_OMICIDIO AL CAIRO (The Nile Hilton incident). Svezia 2017; Regia di Tarik Saleh.
Se abbiamo dato credito all’improbabile titolo, credendo di
andare un giallo di quelli classici, quelli
con Hercule Poirot, per intenderci, rimarremmo esterrefatti nel vedere, nel film Omicidio al Cairo, una ricostruzione illuminante di quella che può
essere una delle cause, quella ambientale, del caso Regeni. Questo vale forse
per noi italiani, d’accordo, ma che, in pieno ventunesimo secolo, uno studente
straniero possa essere liquidato senza troppi problemi in un paese dove molti
di noi erano soliti passare le vacanze, beh, è un fatto che riguarda tutta quanta
la comunità internazionale. Ma cosa c’entra questo, con il film di Tarik Saleh?
C’entra, perché forse mai si era vista una fotografia tanto lucida e credibile
di una società corrotta fino al midollo, una situazione al di fuori di ogni più
malsana immaginazione. Il Cairo che ci mostra Saleh è un posto da incubo e,
alla fine, vien quasi da dare ragione a Kammal, il poliziotto generale che
commenta laconico “cosa possiamo farci”,
di fronte allo sfacelo di corruzione di cui, peraltro, è uno dei più attivi
artefici. Certo, il rimando allo studioso italiano è un fatto tutto nostro, e
il regista pensava ad altro girando il suo film; anche perché Omicidio al Cairo è ambientato poco
prima della rivoluzione di gennaio, in seno all’illusoria primavera araba, che ha portato alla destituzione di Mubarak. Per
cui, il regista pone sul tavolo una situazione molto più complessa rispetto al
semplice caso di un omicidio, sia quello a cui si riferisce il titolo, sia ai
rimandi specifici che ognuno può trovare. E, visto la disastrata situazione
ambientale, è difficile, se non impossibile, pensare che possa essere cambiato
qualcosa; se non in peggio, ovviamente.
Per carità, è sempre valido il solito discorso
che non siamo di fronte ad un documentario, per cui non va preso tutto alla
lettera; e, infatti, la trama gialla, il delitto richiamato nella versione
italiana del titolo, è solo ispirata
ad un fatto di cronaca. Fece scalpore, in Egitto nel 2008, l’omicidio della
cantante libanese Suzanne Tamim e il coinvolgimento di un importante
funzionario governativo, in una faccenda che presenta tanti punti oscuri che
possono benissimo essere accostati a quelli della storia raccontata
dal film di Saleh. Quindi quella del film è una semplice trama gialla niente
più che plausibile; ma l’ambientazione puzza dannatamente di verosimile e non è
presumibilmente lontana dalla situazione anche odierna del Cairo.
La storia in
se è un noir decadente (molto decadente) in cui il poliziotto Noredin (un
sorprendente Fares Fares), sguazza nei traffici loschi e corrotti di uno dei
distretti della delirante capitale egiziana. Noredin è corrotto tra i corrotti,
in più è nipote del citato Kammal, capo del comando di polizia, corrotto anche
più di lui, e quindi è in una botte di ferro. Un giorno gli arriva a casa il
vecchio padre, che deve accudire per breve tempo: l’anziano dice poche parole,
ma stigmatizza la scarsa onestà del figlio. E’ l’unico barlume di pura moralità
dell’intero lungometraggio. Non sembra, per altro, che le sue parole facciano
effetto su Noredin, che procede con il suo solito comportamento: corruzioni,
concussioni, soprusi, qualche pestaggio; gli abituali sistemi della polizia
egiziana, evidentemente (o almeno quella mostrata nel film). Poi finisce su un
caso di omicidio, una donna bellissima, sgozzata. E’ una famosa cantante,
Lalena (Rebecca Simonsson): Noredin è incuriosito e ne compra un CD; anzi no,
non lo compra, lo prende ‘in prestito’ facendo valere anche in
queste piccole cose il suo potere in quanto poliziotto. Ma poi ascolta la
canzone d’amore di Lalena: è forse questo, l’errore di Noredin?
E qui che, come in un noir da manuale, la femme fatale entra a corrompere il
tormentato protagonista? Mah… a parte che il nostro è già corrotto, e quindi casomai, per una sorta di
ribaltamento, lo potrebbe redimere almeno in parte, ma forse non basta una
semplice canzone ascoltata in auto. Però una crepa nell’indifferenza morale del
nostro prode poliziotto si è formata; e quando risente quella stessa canzone,
cantata stavolta dal vivo da un’altra bellissima cantante, Gina (Hania Amar), allora qualcosa si smuove davvero
dentro Noredin. O forse la traccia sentimentale è solo un rimando, un omaggio,
al cinema noir classico; fatto sta
che Noredin smette di essere un semplice ingranaggio nel marchingegno contorto
che aggiusta tutto a suon di mazzette, e prova almeno un poco a capire che
diamine è successo, chi ha ucciso la povera cantante. Ma la sua indagine non ha
alcuna possibilità: prima viene pesantemente osteggiata dai piani alti, poi,
senza alcun motivo apparente, viene favorita e lui viene addirittura promosso
da maggiore a colonnello; in ogni caso, nel frattempo, le alte
sfere avevano mandato qualcuno ad insabbiare (sotto due buoni metri, verrebbe da dire) le cose. Alla fine Noredin
ottiene più soldi; o meglio, li ottiene Kammal, che è più scaltro; ma Noredin
non stava alzando la posta, voleva scoprire davvero la verità. E infatti, è il
primo a rimanere travolto dai manifestanti della rivoluzione di gennaio.
La primavera araba non è una buona stagione. E neppure ne
annuncia una.
Mari Malek
Hania Amar
Rebecca Simonsson
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