1304_IL MERCENARIO . Italia,1968; Regia di Sergio Corbucci.
Sergio Corbucci conosce molto bene gli spaghetti western ma, a volte, sembra
avere un gusto eccessivamente provocatorio: la corrente nostrana dei film sulla
frontiera americana si è presa delle licenze poetiche un po’ sopra le righe, è
vero, ma ne Il mercenario in qualche
passaggio sembrano perfino esagerate. Lo stratagemma narrativo con cui Paco
Roman (Tony Musante) sfugge alla morte quand’era seppellito nella terra fino al
collo è degno di un fumetto popolare degli anni 50 e lasciano un po’ basiti anche
certe stramberie pretese (e accettate dai suoi compari) di Kowalski (Franco
Nero). Il polacco, non contento di
essere tenuto all’ombra di un telo mentre cavalca in pieno deserto, pretende
perfino di fare una doccia per rinfrescarsi utilizzando l’acqua da bere delle
borracce dei suoi compagni. Che non sono damerini qualunque ma terribili rivoluzionari messicani (in pratica banditi
al soldo di Paco Roman). D’accordo, d’accordo, l’anima ludica degli spaghetti, nel 1968, è ormai esplicita
e, anzi, proprio questa capacità di farla coesistere alla traccia avventurosa è
una delle qualità migliori di Corbucci. Però il grande Jack Palance con un’assurda
permanente – nella parte di Ricciolo, il cattivo della storia – è difficile da
perdonare anche al regista romano! Il terzetto tipico della nostrana corrente
western prevede così queste variazioni: il buono,
Kowalski, è un po’ meno buono del solito e si diverte a fare l’esagerato; il brutto, Paco Roman, più che brutto è
buffo ma si accorge di avere l’indole buona; il cattivo, Ricciolo, è sempre cattivo ma anche buffo con
quell’improponibile pettinatura. I ruoli sono così un po’ mischiati rispetto ai
modelli di Sergio Leone nei suoi capolavori ma si nota una maggiore deriva
farsesca generale. Nel classico triello
finale l’antieroe, il cosiddetto buono,
si astiene assumendo il ruolo di arbitro, consolidando quella capacità di stare
a cavallo tra gli schieramenti, dote che era già del primo personaggio senza nome di leoniana memoria. La ribalta eroica è quindi lasciata al messicano, il che va ad inserirsi nella
vena politica di un altro Sergio dei western
all’italiana, Sollima, che l’aveva ben esplorata con la sua trilogia
dedicata agli spaghetti. In effetti
Paco Ramon, in principio un semplice brigante, alla fine finisce per credere
davvero nella rivoluzione, assurgendo
a vero eroe positivo dell’opera. Il finale, con il riferimento ai sogni, mostra
la natura pragmatica di Corbucci che non svaluta la figura del Kovalski di
Franco Nero, ben sapendo che per il pubblico è comunque il personaggio
maggiormente affascinante. Anche più di Columba, a cui Giovanna Ralli concede
grazia e bellezza ma che rimane figura femminile scarsamente incisiva, come da
tradizione di molti western all’italiana.
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