1309_LA CAMPANA HA SUONATO (Silver Lode). Stati Uniti,1954; Regia di Allan Dwan.
Pioniere del cinema muto e forte di una vastissima esperienza, Allan Dawn era un regista che conosceva l’arte di raccontare con semplicità. La campana ha suonato ne è un ottimo esempio. Certo, manca qualcosa, anche in ordine di durata del film ma non solo, per essere davvero un classico di quelli memorabili. Siamo negli anni Cinquanta e i western migliori del periodo sono assoluti capolavori; La campana ha suonato onestamente non vale un film di John Ford, Howard Hawks o Anthony Mann, questo va riconosciuto. In questo senso la stessa lunghezza dell’opera, poco più di ottanta minuti, sembra una mezza dichiarazione d’intento: quello di Dawn può essere assimilato ad un B-movie riuscitissimo o comunque ad un piccolo film, comunque pienamente efficace La forza dell’opera è che si fonda su un pretesto esiguo e si sviluppa in unità di tempo e di luogo, il che rende coerente la dimensione contenuta del racconto. Siamo a Silver Lode, il 4 luglio, il giorno dell’Indipendenza: non è un caso, dal punto di vista narrativo, che sia festa, perché McCarty (Dan Dureya) ha probabilmente aspettato apposta proprio quel giorno per piombare in paese. E pazienza se la sua preda, Dan Ballard (l’impettito John Payne) si stia sposando proprio in quel momento. McCarty interrompe la cerimonia, sostenendo di essere un commissario del governo federale – il che, con la faccia da schiaffi di Dureya è ben poco credibile – con il mandato di arrestare Ballard. Il quale era arrivato da soltanto un anno, nella cittadina, riuscendo peraltro a farsi apprezzare da tutti; in particolar modo dalla ragazza ‘più ricca del paese’, Rose (Lizabeth Scott, inappuntabile).
Sul momento nessuno può credere al forestiero, prima fra tutti proprio Rose, naturalmente. Purtroppo per loro McCarty porta con sé dei documenti identificativi che ne certificano l’autorità e, alla fin fine, sia lo sceriffo (Emile Meyer), che il giudice (Robert Warwick) devono accettare le disposizioni del nuovo venuto. Per Dan la questione si fa spinosa, perché McCarty è semplicemente un pistolero in cerca di vendetta: Ballard gli aveva ucciso il fratello, dopo avergli vinto 20.000 dollari al poker, e l’uomo ora voleva rivalersi oltre ad avere indietro quel denaro. In ogni caso Dan è un uomo intelligente e trova la soluzione: manderà un telegramma per verificare l’autenticità della carica di McCarty, scoprendone così il bluff. Ma anche il presunto ufficiale governativo non è uno sprovveduto e ha preso le sue precauzioni: innanzitutto gli uffici potenzialmente chiusi per il giorno di festa avrebbero potuto ostacolare le ricerche, inoltre, giusto per non correre rischi, aveva tagliato i fili del telegrafo. La situazione, quindi, si complica per Dan, che viene invitato da sceriffo e giudice a seguire il commissario governativo; la folla si scalda, inizialmente tutta a favore del concittadino, poi qualcuno comincia a farsi venire qualche dubbio. Paul, il telegrafista (Frank Sully), parte alla ricerca del guasto sulla linea e per Dan il tempo comincia a stringere. Con l’aiuto della prostituta del paese, Dolly (una scintillante Dolores Moran) riesce a corrompere Johnson (Harry Carey Jr), uno degli uomini di McCarty.
Gli eventi incombono e alla fine di uno scambio a fuoco, sul terreno rimangono lo stesso Johnson e lo sceriffo uccisi da McCarty; malauguratamente la folla arriva sul luogo solo dopo che Dan ha disarmato il falso commissario. Accusato di omicidio, trovato con la colt fumante di fronte a due cadaveri, per Dan è la fine: la sua credibilità agli occhi del paese va a farsi benedire. Perfino la fidanzata Rose sembra avere qualche dubbio, quando vede la reazione rabbiosa di Dan alle accuse arringanti della folla; l’unica a non perdere mai fiducia nel protagonista è Dolly, ancora innamorata dell’uomo che l’aveva messa da parte in favore della ragazza ‘più ricca del paese’ [parole sue]. In effetti il confronto tra Rose e Dolly non è semplice: la Scott era un’attrice di un certo prestigio mentre la Moran era un perlopiù un’occasione persa.
Se le dovessimo valutare per La campana ha suonato Dolores si lascia preferire, grazie ad una verve che la sobria ed elegante Lizabeth non ha. A dar retta al personaggio della prima, forse è davvero la posizione sociale il vero motivo per cui Dan abbia scelto la benestante Rose lasciando la ballerina a sgambettare sui tavoli del saloon. C’è qualcosa, in effetti, in La campana ha suonato che, nonostante il film sia del 1954, ricorda i western romantici degli anni Quaranta. L’ingombrante traccia sentimentale e l’importanza delle figure femminili, con la ragazza perbene e la ballerina che si ergono a protagoniste della svolta decisiva e risolutiva del racconto. Ma anche la natura violenta del protagonista: sul momento, con il suo abito da sposo, Dan sembra un uomo del XX secolo, un uomo civilizzato. Ma quando viene messo sotto accusa, e c’è una scena particolarmente evidente in merito, tira fuori gli artigli della tigre, sfoderando un lato violento che sembra quasi scioccare perfino Rose.
Inoltre, nelle sparatorie, l’uomo, ora braccato come un fuorilegge – di nuovo riecheggiano i temi dei western dei forties – si rivela essere un vero ammazzasette, cosa rimarcata anche dai dialoghi del film. Il colpo di scena, assai ben architettato, vede protagonista la geniale Dolly, che costringe Paul a scrivere un falso messaggio che smaschera McCarty; le scappatelle extraconiugali del telegrafista si rivelano quindi utili alla risoluzione della situazione, visto che sono quelle lo strumento del ricatto con cui la ragazza obbliga l’uomo. Alla fine, tutto si sistema: Dan, disarmato, rifugiatosi sul campanile della chiesa, è raggiunto dal falso commissario. Un colpo accidentale, rimbalzato sulla campana, giustizia McCarty. E’ la giustizia di Dio, sentenzierà qualcuno; ma sembra più che altro una battuta. La notizia, falsa, arrivata via telegrafo, scagiona Dan, che peraltro non sembra affatto disposto a perdonare i propri concittadini. Un bel film, teso e avvincente, giocato tutto in ambiente urbano, per quanto del vecchio west, e in un tempo circoscritto. Un testo che, sorprendentemente, appare ancora moderno, a ben vedere. Ma siamo pur sempre nel 1954 e la produzione non se la sentì, probabilmente, di finire con lo sdegno irremovibile del protagonista verso i propri concittadini, oltretutto nel giorno dell’Indipendenza che, in un certo senso, dovrebbe celebrare la comunione di tutti gli statunitensi. E allora Dawn ricorre ancora a Dolly, vera mattatrice del film, alle prese con Paul che vorrebbe ora confessare l’inganno a cui l’ha costretto la ragazza, ma sente arrivare il ticchettio della risposta ai telegrammi commissionatogli da Dan. McCarty era davvero un fuorilegge e la bugia a fin di bene, a cui l’aveva obbligato Dolly, non era quindi una vera bugia. Insomma, se la mancanza di fiducia può far arrabbiare di brutto anche un classico eroe del far west, una bugia a fin di bene, una bugia detta per difendere qualcuno contro tutte le (false) evidenze, merita il rango di verità. In un film che comincia con un matrimonio sembra davvero un tema adatto. Peccato che la persona con la fede più forte sia la prostituta.
Dolores Moran
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