1255_NOTTE SENZA FINE (Pursued). Stati Uniti, 1947; Regia di Raoul Walsh.
Con l’approdo alla Warner Bros, Raoul Walsh aveva raggiunto il
suo ambiente di lavoro ideale: nei famosi crime-movie degli anni 30, lo studio
si era specializzato in opere avventurose che avessero un retroterra sociale e
il regista americano poté dare un significativo contributo. Notte senza fine
è un interessantissimo western che intreccia varie correnti del periodo, per un
risultato notevole oltre che sorprendente. Spesso considerato un western-noir, Pursued
[t.l. inseguito, perseguito] è un western romantico con ambientazione
noir e intreccio narrativo con risvolti psicanalitici. L’influenza noir,
seppure evidente, si limita infatti all’ambientazione notturna, valorizzata
dalla splendida fotografia di James Wong Howe, e alla cupezza dei temi della
storia. Ma la struttura del racconto non ha poi tutti questi agganci con il
genere per eccellenza dei forties: il protagonista non è propriamente un
tipico personaggio da noir e la controparte femminile, per quanto si riveli
tosta, non può certo essere considerata una dark lady. Viceversa il racconto
preserva alcune caratteristiche tipiche dei western romantici, quelli degli
anni Quaranta, di cui, pur presentando alcune variazioni sul tema, può essere
considerato a ragione uno dei migliori esempi. Il protagonista è Jeb Rand (Robert
Mitchum): rimasto orfano da piccolo, il ragazzo viene adottato dalla signora
Callum (Judith Anderson) e tutto sembra procedere per il meglio.
Finanche, se
Mitch era un attore ancora in rampa di lancio, la Anderson avesse già mostrato
il suo lato inquietante a più riprese, a partire dal ruolo della maligna
governante in Rebecca – La prima moglie (1940, regia di Alfred
Hitchcock). Insomma, al cinema, avere una madre con l’aspetto della Anderson,
che nel film Jeb definisce strano, non è certo un biglietto da visita
troppo benaugurante. Ma non è lei, naturalmente, a contendere al figlio
adottivo il cuore del racconto: la citata signora Callum alleva Jeb insieme ai
suoi due figli, Adam (John Rodney) e Thor (Theresa Wright) ed è appunto quest’ultima
la figura femminile di riferimento. Un ruolo curioso, per la Wright, perché sia
l’aspetto che la breve ma significativa carriera fin lì (già premio Oscar nel
1943 ma non solo) la facevano ricordare per una ragazza dolce seppur
determinata. Thor, che già il nome qualifica come personaggio non certo
remissivo, da sorellina dei due più grandi fratelli, assume via via sempre più
un ruolo rilevante, all’interno dello strano triangolo che si viene a creare.
In effetti il soggetto di Niven Busch, oltre che fosco, lascia più di qualche
aspetto irrisolto, forse volutamente. Jeb era rimasto orfano in seguito
all’opera di Grant Callum (Dean Jagger) che, insieme ad altri suoi parenti,
aveva sterminato la famiglia Rand. A spingere Grant ad una simile azione era il
desiderio di vendicare un tradimento subito dal fratello, una situazione non
del tutto chiarita, per il quale l’uomo si prendeva la briga di ricercare a
lungo anche il figlioletto scampato al massacro, Jeb Rand appunto.
Ma è difficile
comprendere le motivazioni di queste dinamiche del racconto e ci vuole tutta
l’abilità in regia di Walsh per sopire i dubbi dello spettatore. Tra l’altro lo
sterminio della propria famiglia non è un elemento secondario della vicenda –
se mai potesse esserlo – perché è la causa delle turbe psichiche che affliggono
Rand fin nella sua maturità; inoltre l’accanimento di Grant è il leitmotiv
della storia per cui è curioso che poi non sia spiegato in modo chiaro. Con una
certa scaltrezza gli autori, Busch e Walsh, lasciano oscura la natura del
mistero che tormenta Rand fino al concitato finale – quindi per tutto il film –
in modo che l’abile mano del regista possa condurre con sicurezza la storia sui
suoi tormentati sentieri. Purtroppo il finale non risolve tutti quanti i dubbi
e il film riesce a salvarsi non essendo un giallo o un thriller ma un western e
avendo quindi altri punti di forza a sostenere la narrazione. Per essere
onesti, nonostante Notte senza fine non sia un giallo, va detto che nel
cinema americano è insolito – oltre che un errore grave – non dipanare
correttamente la matassa della trama; forse, in questo caso, potrebbero essere
insorti problemi censori non indifferenti. Da quel che si capisce, per come
viene spiegato sommariamente il punto chiave della storia, il padre di Rand
ebbe una relazione con la signora Callum, cognata di Grant. La donna era dunque
la madre di Rand? Da quel che si evince, sembrerebbe di no, anche perché il
lieto fine previsto è tra Rand e Thor che, in quel caso, sarebbero fratellastri.
Cosa inaccettabile anche adesso figuriamoci nel 1947. Ma questo spiegherebbe
l’enorme portata dell’odio di Grant: per quel che si apprende dagli stringati
dialoghi, sembrerebbe che, per una questione di corna, questi arrivi ad
uccidere un uomo e i suoi due figlioletti, mancando il terzo ma cercando per
tutta la vita di rimediare a questa lacuna. Se la risposta rabbiosa può anche
essere plausibile, è assai meno comprensibile l’accanimento che Grant nutre per
anni nei confronti di Rand. Diversamente, una faccenda incestuosa, con la donna
che rimane incinta dall’amante anche della prole legittimamente riconosciuta,
potrebbe essere una motivazione già più solida. Inoltre, in questo caso, assumerebbe
un altro inquietante aspetto il triangolo Rand-Thor-Adam, visto che nel film
quest’ultimo ha uno strano rapporto di gelosia nei confronti di una storia
sentimentale che, in fin dei conti, è semplicemente tra sua sorella con un
non-consanguineo. Se Rand fosse il fratellastro dei due, e non solo quello
adottivo, perlomeno il triangolo sarebbe, diciamo così, più bilanciato.
Ma naturalmente sono tutte congetture: che il film, peraltro, non smentisce
affatto anzi, suggerisce visto che alcuni sentimenti e comportamenti non hanno
una motivazione coerente. Al centro di tutto questo turbinio di odio c’è Rand
che Robert Mitchum, giusto trentenne, interpreta con lo stile che lo renderà
celebre. La Mitchum cool, l’imperturbabilità, la calma di Mitch, al
tempo non era ancora riconosciuta e venne scambiata, da qualche critico poco
avveduto, per scarsa capacità interpretativa.
In effetti Rand, pur soffrendo di
disturbo da trauma infantile, non è che appaia particolarmente turbato
esteriormente; la bravura del monumentale attore americano era proprio quella
di avere un lato oscuro che rimaneva sempre quantomeno ambiguo e, dentro al
quale, il racconto poteva eventualmente celare qualsiasi cosa. E’ anche grazie
alla prestazione di Mitchum, oltre che a quella di Walsh dietro la macchina da
presa, di Howe alla fotografia e dell’ottimo lavoro di Max Steiner con la
colonna sonora, che il film funziona alla grande nonostante le citate lacune
del soggetto. Se la svolta ostile, verso il protagonista, da parte del personaggio
di Judith Anderson era quasi prevedibile, sorprende quella di Thor a cui
Theresa Wright riesce a dare piena credibilità, nonostante il comportamento
combattuto. La Wright aveva ventinove anni e nella prima parte del film ha
l’aspetto più giovanile, in pratica quello che aveva in genere mostrato sullo
schermo: per intenderci, solo quattro anni prima aveva interpretato
l’adolescente protagonista de L’ombra del dubbio (1943, regia di Alfred
Hitchcock). Ma è nella fase in cui si incattivisce contro Rand, reo di averle
ucciso fratello e spasimante, che la sua prestazione si evolve in modo più
convincente. A conti fatti, ai motivi di vanto di Notte senza fine va
ascritto anche il vedere una Theresa così raggiante come nel momento in cui si
riconcilia con Rand dopo la fase critica. Il film, come detto, è un tipico
western romantico: il protagonista non sarà un fuorilegge ma viene comunque
processato un paio di volte, oltre ad avere un’indole non certo laboriosa; e si
trova nella condizione di essere inseguito, come recita il titolo originale,
alla stregua di un bandito con taglia appresso. C’è la protagonista femminile
che ha peso sia nella storia sentimentale sia come personaggio in sé,
importante almeno quanto la controparte maschile. C’è il tema della violenza
insita nella natura del personaggio principale e, sempre per restare al manuale
del western anni 40, la pellicola è in rigoroso bianco e nero. E l’influenza
noir, che è innegabilmente pesante, è un’altra delle caratteristiche dei
western romantici di cui Notte senza fine è, senza alcun dubbio, una
delle vette qualitative. Oltre che un gran film in senso assoluto, ambiguità narrative
comprese.
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