1253_IL PASSO DEL DIAVOLO (Devil's Doorway). Stati Uniti, 1950; Regia di Anthony Mann.
Dopo i film di inizio carriera che oscillavano tra toni leggeri e qualche prima insidia di matrice drammatica, Anthony Mann aveva inanellato una serie di sette eccellenti lungometraggi che estendevano il concetto tipico di noir portandolo a sovrapporsi al crime-movie, al poliziesco e perfino al dramma storico in costume. Nel 1950 il regista americano approda per la prima volta al western con Il Passo del Diavolo. Si trattava di uno stacco netto, soprattutto per la forza e l’importanza che il genere stava assumendo in quegli anni Cinquanta. In fondo anche Il regno del terrore, il citato dramma in costume girato l’anno precedente, può sembrare altrettanto lontano dalle ambientazioni metropolitane degli altri film del periodo hard-noir di Mann. Ma ad Hollywood il genere storico era solo un pretesto esotico per diversificare la produzione di film, mentre il cinema western stava divenendo l’epica dell’intera nazione. Mann, quindi, non ha alcun problema a trasformare una vicenda ambientata ai tempi della Rivoluzione Francese in uno dei suoi tipici noir; peraltro non dissimile, anche se più attento agli stilemi del genere, il suo approccio al western. Quello che farà la differenza non sarà tanto come Mann pieghi il western alla sua poetica quanto come il genere stesso riconosca – in senso lato – al regista americano la capacità più unica che rara di interpretarlo in modo non solo originale, ma risolutivo. In effetti il cinema western di Anthony Mann probabilmente non fu davvero capito, al tempo, e non tanto per incapacità del pubblico o degli altri addetti ai lavori ma per la sua stupefacente modernità.
Diversamente non avremmo avuto il western crepuscolare, il contro-western e forse persino gli spaghetti-western, insomma tutte quelle varianti sul tema che contestavano il western-classico. Jean-Luc Godard disse “con Anthony Mann noi abbiamo in ciascuna inquadratura sia l’analisi che la sintesi” [Anthony Mann, di Alberto Morsiani, Il Castoro, pag. 48]. La stessa cosa si può estendere ovviamente ai suoi interi lungometraggi: nell’ambito western, a partire proprio dallo stupendo Il Passo del Diavolo. Dunque, si diceva: Mann arriva al western dopo aver diretto una serie di noir. Il colore, nel 1950, si è già dimostrato l’ideale interprete per il genere ma l’autore rimane fedele al bianco e nero e, soprattutto, a John Alton, eccezionale direttore della fotografia. Così come Il Regno del terrore, anche Il Passo del Diavolo è girato come un noir pur non essendolo. Come detto, una prima differenza è che il genere storico è un elemento un po’ estemporaneo, ad Hollywood.
Diversamente il western aveva ben altro peso e, soprattutto, era l’antitesi del noir. I due generi sono quelli che, in ambito di cinema di azione, hanno interpretato l’ascesa degli Stati Uniti, il noir negli anni Quaranta e il western nel decennio successivo. Dai timori successivi alla Grande Depressione esplosi poi con la Seconda Guerra Mondiale – le ombre del noir – al trionfo del Sogno Americano – il western classico e il suo arioso racconto della conquista del west. Da una parte la metropoli, scura e opprimente, dall’altra il selvaggio west e i suoi spazi aperti. Il bianco e nero per il primo, i colori saturi e caldi per il secondo. La fotografia di Alton descrive invece un west non solo in bianco e nero – cosa non certo originale visto che il genere era stato in bianco e nero per molti anni – ma lo fa dando per cominciare una predominanza ai toni scuri. E poi le inquadrature sono raramente prese da un’altezza naturale dello sguardo – altezza uomo – ma i personaggi incombono spesso sullo spettatore ripresi dal basso; a volte, è il caso dell’arrivo sulla scena dell’avvocato Verne (Louis Calhern), il cattivo della storia, ne delimitano i margini con la loro scura siluette. Qui si può già scorgere la citata capacità di sintesi di Mann, non solo nell’abilità nel comporre il fotogramma ma caratteristica di tutta la sua poetica. Il cattivo è un avvocato – ovvero un rappresentante della Legge – il che in un western degli anni Cinquanta è un fatto singolare. In teoria, nello sviluppo del genere, si ha la conquista con la forza del west poi la sua civilizzazione e qui entra in gioco la Legge, l’arrivo degli sceriffi; di questo si occupò il western fino al periodo classico. In seguito entrano in scena avvocati e giudici e solo allora si scoprirà che anche i rappresentanti della Giustizia possono essere corrotti, tema caro a tutte le correnti del tardo-western.
Se il cattivo del film è un avvocato, ovvero una delle massime espressioni della cultura americana, l’eroe della storia è un pellerossa, Lance Pole (Robert Taylor). Sullo scarso grado di comprensione che ebbe il cinema western di Mann basta una semplice riflessione. Ne Il Passo del Diavolo l’eroe tragico ed epico è un indiano; ne L’amante indiana di Delmer Daves il protagonista è un bianco che si innamora, come si evince dal titolo, di una nativa. I film sono sostanzialmente simultanei, agosto 1950 del primo contro luglio dello stesso anno del secondo. Quello di Mann resterà nell’anonimato, l’altro diverrà un buon successo al botteghino: non si sta discutendo sui gusti legittimi del pubblico ma la cosa curiosa è che quando i critici andranno a cercare l’origine del presunto revisionismo filo indiano – in realtà il western classico tratterà sempre o quasi i nativi con rispetto – esalteranno il film di Daves ignorando completamente Il Passo del Diavolo che, volendo ben vedere, è assai più significativo in questo senso.
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