Translate

giovedì 6 aprile 2023

IL PASSO DEL DIAVOLO

1253_IL PASSO DEL DIAVOLO (Devil's Doorway)Stati Uniti, 1950; Regia di Anthony Mann.

Dopo i film di inizio carriera che oscillavano tra toni leggeri e qualche prima insidia di matrice drammatica, Anthony Mann aveva inanellato una serie di sette eccellenti lungometraggi che estendevano il concetto tipico di noir portandolo a sovrapporsi al crime-movie, al poliziesco e perfino al dramma storico in costume. Nel 1950 il regista americano approda per la prima volta al western con Il Passo del Diavolo. Si trattava di uno stacco netto, soprattutto per la forza e l’importanza che il genere stava assumendo in quegli anni Cinquanta. In fondo anche Il regno del terrore, il citato dramma in costume girato l’anno precedente, può sembrare altrettanto lontano dalle ambientazioni metropolitane degli altri film del periodo hard-noir di Mann. Ma ad Hollywood il genere storico era solo un pretesto esotico per diversificare la produzione di film, mentre il cinema western stava divenendo l’epica dell’intera nazione. Mann, quindi, non ha alcun problema a trasformare una vicenda ambientata ai tempi della Rivoluzione Francese in uno dei suoi tipici noir; peraltro non dissimile, anche se più attento agli stilemi del genere, il suo approccio al western. Quello che farà la differenza non sarà tanto come Mann pieghi il western alla sua poetica quanto come il genere stesso riconosca – in senso lato – al regista americano la capacità più unica che rara di interpretarlo in modo non solo originale, ma risolutivo. In effetti il cinema western di Anthony Mann probabilmente non fu davvero capito, al tempo, e non tanto per incapacità del pubblico o degli altri addetti ai lavori ma per la sua stupefacente modernità. 

Diversamente non avremmo avuto il western crepuscolare, il contro-western e forse persino gli spaghetti-western, insomma tutte quelle varianti sul tema che contestavano il western-classico. Jean-Luc Godard disse “con Anthony Mann noi abbiamo in ciascuna inquadratura sia l’analisi che la sintesi” [Anthony Mann, di Alberto Morsiani, Il Castoro, pag. 48]. La stessa cosa si può estendere ovviamente ai suoi interi lungometraggi: nell’ambito western, a partire proprio dallo stupendo Il Passo del Diavolo. Dunque, si diceva: Mann arriva al western dopo aver diretto una serie di noir. Il colore, nel 1950, si è già dimostrato l’ideale interprete per il genere ma l’autore rimane fedele al bianco e nero e, soprattutto, a John Alton, eccezionale direttore della fotografia. Così come Il Regno del terrore, anche Il Passo del Diavolo è girato come un noir pur non essendolo. Come detto, una prima differenza è che il genere storico è un elemento un po’ estemporaneo, ad Hollywood. 

Diversamente il western aveva ben altro peso e, soprattutto, era l’antitesi del noir. I due generi sono quelli che, in ambito di cinema di azione, hanno interpretato l’ascesa degli Stati Uniti, il noir negli anni Quaranta e il western nel decennio successivo. Dai timori successivi alla Grande Depressione esplosi poi con la Seconda Guerra Mondiale – le ombre del noir – al trionfo del Sogno Americano – il western classico e il suo arioso racconto della conquista del west. Da una parte la metropoli, scura e opprimente, dall’altra il selvaggio west e i suoi spazi aperti. Il bianco e nero per il primo, i colori saturi e caldi per il secondo. La fotografia di Alton descrive invece un west non solo in bianco e nero – cosa non certo originale visto che il genere era stato in bianco e nero per molti anni – ma lo fa dando per cominciare una predominanza ai toni scuri. E poi le inquadrature sono raramente prese da un’altezza naturale dello sguardo – altezza uomo – ma i personaggi incombono spesso sullo spettatore ripresi dal basso; a volte, è il caso dell’arrivo sulla scena dell’avvocato Verne (Louis Calhern), il cattivo della storia, ne delimitano i margini con la loro scura siluette. Qui si può già scorgere la citata capacità di sintesi di Mann, non solo nell’abilità nel comporre il fotogramma ma caratteristica di tutta la sua poetica. Il cattivo è un avvocato – ovvero un rappresentante della Legge – il che in un western degli anni Cinquanta è un fatto singolare. In teoria, nello sviluppo del genere, si ha la conquista con la forza del west poi la sua civilizzazione e qui entra in gioco la Legge, l’arrivo degli sceriffi; di questo si occupò il western fino al periodo classico. In seguito entrano in scena avvocati e giudici e solo allora si scoprirà che anche i rappresentanti della Giustizia possono essere corrotti, tema caro a tutte le correnti del tardo-western. 

Se il cattivo del film è un avvocato, ovvero una delle massime espressioni della cultura americana, l’eroe della storia è un pellerossa, Lance Pole (Robert Taylor). Sullo scarso grado di comprensione che ebbe il cinema western di Mann basta una semplice riflessione. Ne Il Passo del Diavolo l’eroe tragico ed epico è un indiano; ne L’amante indiana di Delmer Daves il protagonista è un bianco che si innamora, come si evince dal titolo, di una nativa. I film sono sostanzialmente simultanei, agosto 1950 del primo contro luglio dello stesso anno del secondo. Quello di Mann resterà nell’anonimato, l’altro diverrà un buon successo al botteghino: non si sta discutendo sui gusti legittimi del pubblico ma la cosa curiosa è che quando i critici andranno a cercare l’origine del presunto revisionismo filo indiano – in realtà il western classico tratterà sempre o quasi i nativi con rispetto – esalteranno il film di Daves ignorando completamente Il Passo del Diavolo che, volendo ben vedere, è assai più significativo in questo senso. 

Qui, infatti, l’eroe è un indiano e la sua amante – amante in modo assai platonico – Orrie (una sontuosa Paula Raymond) è una donna bianca e non viceversa. Ne consegue che la storia d’amore è mortificata sul nascere, visto che, nella concezione maschilista della mentalità occidentale, negli accoppiamenti misti solo una combinazione è tollerata. Ad un uomo bianco è infatti concesso di fare conquiste tra le indigene, si veda appunto L’amante indiana e il suo riscontro favorevole al box-office. L’importante è che non esageri nel dar valore alla cosa – come invece fa il personaggio di James Stewart nel film di Daves che, in ogni caso, è più che pregevole e valido sotto ogni aspetto e provava a spostare il là il limite in merito alla pacifica convivenza. 

Tuttavia, almeno nello specifico della questione indiana, Il Passo del Diavolo rappresenta un punto di vista decisamente oltre: qui il protagonista è un indiano e il prender per moglie una donna bianca ha lo stesso valore simbolico di voler possedere la terra ora divenuta americana: un nativo non ne ha diritto, per Legge. Pur rendendosi conto che il panorama scenico nel western offra dei risvolti peculiari e significativi – tanto che, nella storia, Dolci pascoli, la vallata dove vive Lance Pole, ha un ruolo decisivo – Mann rappresenta anche figurativamente gli ostacoli che il protagonista incontra sulla sua strada. Steccati e recinzioni tagliano costantemente l’inquadratura; la stessa scena poi è spesso inquadrata, quasi inscatolata, da cornici costituite da un portico o dal tetto della capanna in legno dove vive l’indiano. Gli interni sono ancora più opprimenti: nella scena della violentissima scazzottata, che diverrà uno dei marchi di fabbrica dei western di Mann, il saloon sembra l’anticamera dell’inferno e i volti dei presenti, morbosamente curiosi, diventano demoni perversi sotto lo sguardo del grandangolo di Alton sparato a pochi centimetri dalle untuose facce. 

Ecco la civiltà americana; a far da contrasto le sobrie scene nel campo indiano, sebbene Pole Lance sia poi costretto a giustificare agli occhi di Orrie e della madre, una prova di forza e coraggio richiesta dagli Shoshoni ai propri giovani. La ragazza è un avvocato – un altro, altro che selvaggio west – e rimane inorridita nel vedere un ragazzino arrivare stremato dopo la prova di maturità in versione indiana: la definizione di barbari subito aleggia sul volto delle due donne e l’uomo è costretto a motivare usi e costumi della sua gente. Ma la modernità di Mann non è solo nelle simbologie della sua messa in scena ma è soprattutto concreta, come si evince anche nei passaggi narrativi. In tema di pregiudizi, ad esempio, come visto il rapporto tra Lance Pole e Orrie non scorre certo in serena armonia ma segnala come i preconcetti siano diffusi su entrambi gli schieramenti. 

Sin dal primo incontro: l’uomo, che cerca un legale per contrastare l’azione dell’avvocato Verne, rimane perplesso quando si trova di fronte ad una donna. La quale, in tutta risposta, è percorsa da un dubbio quando scopre di dover difendere gli interessi di un indiano. Le stesse ragioni di Lance Pole sono messe in contrapposizione con quelle degli allevatori di pecore che, da parte loro, vorrebbero solamente poter abbeverare e nutrire le proprie greggi. Mann qui si dimostra particolarmente abile, perché struttura la questione su vari piani, costringendo lo spettatore ad ammettere, in un modo o nell’altro, qualcosa di scomodo. E’ evidente che Lance Pole abbia diritti di proprietà naturali su Dolci Pascoli. Ma è tantissima terra, per un uomo solo; vero è che l’indiano è disposto ad ospitare altri nativi nel caso abbiano bisogno. Tuttavia l’autorità decisionale se la tiene stretta per sé, cosa che Orrie gli contesta come scelta egoista. Ma si tratta della filosofia fondante il Sogno Americano: cercare di avere il massimo per sé stessi. 

Dal canto loro i pastori non chiedono altro che sopravvivere. Tra l’altro la contesa tra allevatori di pecore e di vacche fu un elemento di contrasto storico nel far west, e vi è anche un riferimento in questo senso. Il problema era che dove passavano gli ovini quasi non rimanevano neppure le radici dell’erba e questo danneggiava i bovini; tuttavia in linea di principio tutti dovevano aver diritto a pascolare, sebbene la naturale convivenza fosse ardua. Nonostante fosse un tema poco frequentato dal cinema o dalla letteratura, era evidente che i pastori avessero una rilevanza minore rispetto agli allevatori di vacche: non a caso la figura più importante e simbolica del west è, per enorme distacco, il cow-boy, il mandriano. Ruolo che, in Il Passo del Diavolo è ricoperto dall’indiano della storia che, per rimarcare il rimescolamento messo in campo da Mann, è stato anche una giacca azzurra durante la Guerra Civile. Un allevatore – un cow boy, in sostanza – che rivendica il possesso della sua naturale proprietà contro i poveri pastori di pecore, oltretutto disposti ad accettare il compromesso pur avendo le scartoffie legali dalla loro parte. Mann mette gli americani di fronte ad un bel dilemma: siete a favore del primo? Occhio che è un indiano. State coi pastori? Cosa siete, comunisti? Qualunque scelta si possa fare, la risposta mina alla base la società americana. A meno di non fingere di credere nella Legge in modo astratto come Orrie e chiamare la cavalleria a fare piazza pulita. La coscienza, ad averla, rimarrà comunque sporca. 




Paula Raymond 



Galleria di manifesti 













Nessun commento:

Posta un commento