1252_IL LUNGO VIAGGIO . Italia, 1975; Regia di Franco Giraldi.
Negli anni Settanta la televisione italiana aveva ormai raggiunto un grado di autonomia tale da svincolarsi quasi definitivamente dal teatro, al quale era sempre ricorsa nel momento in cui decideva di mettere in scena una trasposizione da un romanzo o di un qualche evento. In Italia, infatti, quando la Rai aveva trasmesso qualcosa che non fosse una mera riproposizione del cinema del grande schermo, dal varietà agli sceneggiati era sempre evidente l’impronta teatrale. Gli sceneggiati si rivelarono particolarmente adatti alla riduzione dei classici della letteratura: la marcata capacità degli interpreti, di rigorosa scuola teatrale; le evocative scenografie ricostruite in studio, mai troppo esplicitamente sfarzose, ma forse proprio per questo stimolanti per la fantasia di chi guardava; la regia discreta che riproponeva per lo più il punto di vista di uno spettatore in platea. Tutti questi erano elementi che, oltre ad ammantare l’opera di un certo glamour artistico, contribuivano a ricreare l’atmosfera intima che si prova nel leggere un libro. L’arrivo del colore e di budget più consistenti con la conseguente possibilità di girare un maggior numero di scene in esterni, erano indubbi vantaggi ma comportavano qualche rischio: il primo dei quali era il fatto che la fantasia dello spettatore sarebbe venuta meno sollecitata. Certo, lo si potrebbe dire anche del cinema, è chiaro; ma gli sceneggiati Rai fondavano parte del proprio fascino sul lore aspetto retrò e sul derivante stimolo di adattamento richiesto allo spettatore, questo elemento emblematicamente reso esplicito dallo stile recitativo degli interpreti.
Forse per conservare parte di questo patrimonio carismatico, per Il lungo viaggio di Franco Giraldi, girato a colori e con un’ambientazione quanto mai varia che rischiava di disperdere l’atmosfera intima, si scelse di trasferire le riprese in Ungheria e Polonia. Le location scelte dovevano perlopiù ricreare la Russia di Dostoevskij e dei suoi cosiddetti romanzi ministeriali e, per uno spettatore italiano degli anni Settanta (ma anche odierno, per la verità), funzionavano benissimo allo scopo. Allo stesso modo, tolto un pugno di interpreti italiani, il cast era formato da attori dei citati paesi e anche questo aspetto contribuisce a rendere Il lungo viaggio particolarmente credibile. Da un punto di vista narrativo il regista Giraldi introduce una cornice narrativa, il lungo viaggio del titolo, dove il protagonista Simonov (Jan Englebert) racconta al Conte (Zbigniew Brestkopf) suo importante compagno di diligenza, una serie di avventure di cui è stato testimone o protagonista.
I primi due episodi della serie televisiva sono dedicati a Il sosia, racconto filmico tratto dall’omonimo romanzo di Fedor Dostoevskij, nel quale spicca l’interpretazione di Ivan Darvas nei panni del duplice personaggio di Goljadkin. La vicenda è ipnotica e suadente, la regia, assecondata dalla musica di Luis Bacalov, avvolge e confonde lo spettatore, con trucchi che spiazzano come il guardare improvvisamente e quasi distrattamente in macchina di un interprete o bei passaggi come nella scena al ricevimento dove lo specchio è in realtà una vetrata nella quale Goljadkin non vede sé stesso riflesso ma il suo doppio. Anche la fotografia del film, sporca e dai colori un po’ smunti, aiuta nella costruzione di un’atmosfera onirica che finisce per farci dubitare di quanto visto condividendo almeno in piccola parte lo smarrimento del protagonista dello specifico segmento narrativo. Il terzo episodio si presenta con un bell'incipit, durante una sosta del viaggio in diligenza di Simonov e del Conte. La curiosa coppia, uno è un giovane intellettuale di idee rivoluzionarie, l’altro un aristocratico disilluso, assiste ad una gustosa disputa tra due contadini e il pope del borgo, con un senatore – convocato dalle proteste dei paesani contro gli abusi dell’autorità locale ecclesiastica – a far da giudice. Il senatore chiude la questione richiamando il pope all’ordine e Simonov vi legge la possibilità di riscatto per i contadini: ma la sua verve entusiasta verrà smorzata proprio dalla diffidenza nei suoi confronti dei due paesani non troppo accondiscendenti verso un distinto signore di città. Lo smacco non lo turba più di tanto ma anzi gli riporta alla mente la vicenda di un impiegato statale che, come lui, era fin troppo sicuro di sé. Pavel Pavlovic (Flavio Bucci, istrionico come suo solito), protagonista di Racconto della neve fradicia (tratto da Memorie dal sottosuolo, sempre di Dostoevskij) è però un tipo assai più controverso rispetto a Simonov: emarginato e non accettato dai suoi simili, è tuttavia convinto di essere migliore di loro. La sua supponente personalità si manifesta in modo lampante nel rapporto con Liza (una giovanissima Ottavia Piccolo, strepitosa), una prostituta che dapprima finge di compatire ma che, in realtà, disprezza. O forse no: forse il suo discostarsi è semplicemente una strategia per sfuggire alla responsabilità che un amore corrisposto comporti.
A fronte di una personalità tanto disturbata – quanto lo sono quelle della gente reale, che un mago del calibro di Dostoevskij era capace di creare – anche la solida affettuosa ingenuità di Liza dovrà lasciare la mano, per la disperazione di Pavlovic, abbandonato al suo destino. Una brutta storia è l’ultimo dei romanzi ministeriali di Dostoevskij a trovare posto ne Il lungo viaggio e vede Glauco Mauri nel ruolo di Pralinskij, un pezzo grosso della burocrazia che, sulla strada per rientrare a casa, si imbatte nella festa di matrimonio di un suo subalterno. L’eminente signorotto non esita ad entrare nell’umile casa dove si celebra la lieta ricorrenza ma la sua presenza si rivela via via sempre più fuori luogo. La vodka scorre a fiumi, anche se per sua eccellenza si riserva il pessimo champagne che gli sposi avevano da parte per i brindisi, e l’alcool finisce per prendere il sopravvento. I giovanotti presenti alla festa dileggiano il povero Pralinskij che davvero non si capacita di come possa venirgli mancato di rispetto dopo il suo magnanimo gesto di presenziare ad una festa tanto plebea. La vicenda, più grottesca che ironica o drammatica, è ideale per la verve ambiguamente perplessa di Glauco Mauri, al solito bravissimo. In coda al quarto episodio c’è tempo anche per la chiusura del viaggio e della disputa dialettica tra il conte e Simonov, con il primo a cavare d’impaccio il secondo. Pur essendo stati destinati al confino entrambi, e questo è Il lungo viaggio del titolo, ad un aristocratico come il Conte il meschino ufficiale locale non intende certo mettere i bastoni tra le ruote. E di questo privilegio finirà per beneficiare anche Simonov, in principio avremmo detto ‘suo malgrado’ ma, a arrivati a questo punto, viene più di un dubbio in questo senso. Del resto era un impiegato ministeriale pure lui e al trovarsi fuori luogo avrebbe dovuto esserci abituato: privilegiato rispetto al popolo ma senza avere reali privilegi nei confronti degli aristocratici. Una sensazione di disagio che anticipa i tormenti interiori dell’individualismo tipico dell’uomo moderno.
Ottavia Piccolo
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