933_CIMARRON ; Stati Uniti, 1960; Regia di Anthony Mann.
Nelle considerazioni che si possono fare in merito a questo
film, non aiuta certo il fatto che il regista sia un asso come Anthony Mann.
Mann ha al suo attivo alcune pellicole di assoluta eccellenza per il genere western
e per il cinema in senso assoluto: vengono subito in mente i film col sodalizio
con James Stewart, ma non solo. Purtroppo Cimarron
è un film che non raggiunge nemmeno la sufficienza, in senso compiuto, come
opera; si potrebbe ben definirlo un film brutto.
Questo viene da dire a botta calda, subito dopo la visione; smaltita la
delusione, possiamo anche valutare le cose positive che ci sono nell’opera, che
ci ricordano il talento del regista americano. La prima ora è buona, c’è una
solida impostazione, sebbene la melassa sentimentale affiori già qua e là.
Notevole però lo spunto storico della corsa alla terra dell’Oklahoma; poi ci
sono le classiche scene alla Mann, con la tensione che sale fortissima, le
varie scazzottare, le ingiustizie ai danni dell’indiano, l’impiccagione dello
stesso, i divertimenti da prepotenti dei bulli del paese, la resa dei conti
nella scuola. Oltre che il titolo del film, Cimarron è il soprannome di Yancey
Cravat (Glen Ford) che è il classico raddrizza torti dei film western;
niente di originale ma è comunque un tema classico. Glen Ford non ha la
presenza scenica di John Wayne o James Stewart ma, a suo favore, va detto che
è un eroe più moderno, meno granitico. Il vero danno, nella storia raccontata
dal film, è che si innamora di una delle donne più insulse della storia del
cinema, ovvero tal Sabra (una scialba Maria Schell), che prende via via più
importanza nell’economia della vicenda, mandando a gambe all’aria ogni pretesa
di mantenere un minimo interesse sulla questione.
La donna passa il tempo a contestare
le scelte del marito e del figlio avanzando pretese, salvo poi commuoversi nel
ricordare i tempi perduti. Una melassa senza capo né coda che si protrae per
ben 147 minuti, di cui salvare appunto solo la prima oretta citata prima, non
eccelsa ma comunque di altro tenore. Peccato veder coinvolta anche Anne Baxter
in un simile pasticcio, per altro a sua volta in una parte per nulla
memorabile. A livello di struttura, il film parte con un forte riferimento
storico (la suddetta corsa alle terre dell’Oklahoma) e rimane legato a quel
periodo per tutta la prima fase; poi, pian piano il tempo della narrazione si
dilata fino a coprire uno spazio temporale enorme che va dalla fine dell’epoca
del vecchio west alla Grande Guerra. E, purtroppo, anche questa difformità
nella struttura temporale della narrazione non giova alla riuscita dell’opera.
Va detto che, almeno stando ad alcune voci, Mann sia stato ostacolato in alcune
scelte e, da un certo punto in poi, si sia disinteressato alla realizzazione
del lungometraggio. Curiosamente, in definitiva, il film riesce, anche se in
modo probabilmente involontario, a dare comunque uno spunto di riflessione
interessante. Finale del film, l’allegra combriccola di Osage, la città ormai
cresciuta, vuole celebrare lo spirito del pioniere con una statua di
bronzo che raffiguri Cimarron (ma solo perché la moglie, scelta in prima
istanza, ha rifiutato di essere immortalata!): non è più tempo per l’epica dei
film di Mann con Jimmy Stewart, adesso per celebrare il Mito del Far west si
ricorre ad un pacchianissimo monumento. Oltre alla mancanza dei valori
(dispensata a piene mani nel film in ossequio al pragmatismo yankee), anche la
mancanza di gusto. Terribile.
Nelle considerazioni che si possono fare in merito a questo
film, non aiuta certo il fatto che il regista sia un asso come Anthony Mann.
Mann ha al suo attivo alcune pellicole di assoluta eccellenza per il genere western
e per il cinema in senso assoluto: vengono subito in mente i film col sodalizio
con James Stewart, ma non solo. Purtroppo Cimarron
è un film che non raggiunge nemmeno la sufficienza, in senso compiuto, come
opera; si potrebbe ben definirlo un film brutto.
Questo viene da dire a botta calda, subito dopo la visione; smaltita la
delusione, possiamo anche valutare le cose positive che ci sono nell’opera, che
ci ricordano il talento del regista americano. La prima ora è buona, c’è una
solida impostazione, sebbene la melassa sentimentale affiori già qua e là.
Notevole però lo spunto storico della corsa alla terra dell’Oklahoma; poi ci
sono le classiche scene alla Mann, con la tensione che sale fortissima, le
varie scazzottare, le ingiustizie ai danni dell’indiano, l’impiccagione dello
stesso, i divertimenti da prepotenti dei bulli del paese, la resa dei conti
nella scuola. Oltre che il titolo del film, Cimarron è il soprannome di Yancey
Cravat (Glen Ford) che è il classico raddrizza torti dei film western;
niente di originale ma è comunque un tema classico. Glen Ford non ha la
presenza scenica di John Wayne o James Stewart ma, a suo favore, va detto che
è un eroe più moderno, meno granitico. Il vero danno, nella storia raccontata
dal film, è che si innamora di una delle donne più insulse della storia del
cinema, ovvero tal Sabra (una scialba Maria Schell), che prende via via più
importanza nell’economia della vicenda, mandando a gambe all’aria ogni pretesa
di mantenere un minimo interesse sulla questione.
La donna passa il tempo a contestare
le scelte del marito e del figlio avanzando pretese, salvo poi commuoversi nel
ricordare i tempi perduti. Una melassa senza capo né coda che si protrae per
ben 147 minuti, di cui salvare appunto solo la prima oretta citata prima, non
eccelsa ma comunque di altro tenore. Peccato veder coinvolta anche Anne Baxter
in un simile pasticcio, per altro a sua volta in una parte per nulla
memorabile. A livello di struttura, il film parte con un forte riferimento
storico (la suddetta corsa alle terre dell’Oklahoma) e rimane legato a quel
periodo per tutta la prima fase; poi, pian piano il tempo della narrazione si
dilata fino a coprire uno spazio temporale enorme che va dalla fine dell’epoca
del vecchio west alla Grande Guerra. E, purtroppo, anche questa difformità
nella struttura temporale della narrazione non giova alla riuscita dell’opera.
Va detto che, almeno stando ad alcune voci, Mann sia stato ostacolato in alcune
scelte e, da un certo punto in poi, si sia disinteressato alla realizzazione
del lungometraggio. Curiosamente, in definitiva, il film riesce, anche se in
modo probabilmente involontario, a dare comunque uno spunto di riflessione
interessante. Finale del film, l’allegra combriccola di Osage, la città ormai
cresciuta, vuole celebrare lo spirito del pioniere con una statua di
bronzo che raffiguri Cimarron (ma solo perché la moglie, scelta in prima
istanza, ha rifiutato di essere immortalata!): non è più tempo per l’epica dei
film di Mann con Jimmy Stewart, adesso per celebrare il Mito del Far west si
ricorre ad un pacchianissimo monumento. Oltre alla mancanza dei valori
(dispensata a piene mani nel film in ossequio al pragmatismo yankee), anche la
mancanza di gusto. Terribile.
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