929_THE WATER DIVINER. Australia, Stati Uniti, Turchia, 2014; Regia di Russell Crowe.
Alla sua prima esperienza come regista, Russell
Crowe va sul sicuro e, come soggetto, prende una storia forte, di grande
valenza sotto tutti gli aspetti. The
water diviner racconta infatti di un padre che, nel 1919, parte
dall’Australia per andare in Turchia a cercare i resti dei suoi tre figli, tutti
morti lo stesso giorno nella tragica Battaglia
di Gallipoli. Oltre all’enorme carico emotivo per la questione famigliare
del protagonista, Joshua Connor (interpretato dallo stesso Crowe), c’è anche
quello che riguarda quei drammatici avvenimenti legati alla sciagurata
spedizione alleata durante la Prima Guerra Mondiale. Tra l'altro, ad enfatizzare
ulteriormente, c’è la ricorrenza quasi
centenaria, visto che gli scontri in questione risalgono al 1915 e, comunque,
nel 2014 si celebrano (se si può dire
in questo modo) i cento anni dall’inizio della Grande Guerra. Contestualizzazioni a parte, abbiamo quindi un padre
e tre figli morti in guerra: ma la storia raccontata nel film non risparmia
allo spettatore alcuna emozione sul fronte privato del protagonista, visto che
la moglie di Connor, Eliza (Jaqueline McKenzie) si suicida per il dolore.
Assicuratosi una buona struttura emotiva per la sua storia, Crowe, che da stella hollywoodiana dimostra di conoscere bene le leggi dello star system, organizza
un cast coi controfiocchi, perlomeno adeguato al film che deve imbastire.
Infatti, se gli attori che interpretano i turchi sono funzionali (Yılmaz
Erdoğan è il maggiore Hasan e Cem Ylmaz è Jamal, il suo fido braccio destro) è
sorprendente, se si pensa al tipo di storia in questione, il comparto
femminile. Una bellissima ed elegantissima Olga Kurylenko è Ayshe, che intesserà
una traccia sentimentale neanche troppo sotterranea con Connor; ma nel cast,
quasi solo con funzione decorativa, si segnalano due assoluti esempi di
bellezza australiana quali Isabel Lucas e Megan Gale.
La storia è ruffiana,
politicamente corretta e sentita al
punto giusto, la regia è d’ordinanza, ma comunque da cinema mainstream, la fotografia è calda come
si conviene ad un film che si divide, non in parti uguali, tra Australia e
Turchia, terre comunque assolate. E’ un film che emoziona, niente da dire; che
racconta di una tragedia, e quando lo fa, con le scene di guerra, pesta anche durissimo. Crowe è però un
marpione e, sotto sotto, oltre a lasciarci con una speranza, si ritaglia un
lieto fine zuccherosissimo, come ironicamente e consapevolmente ci fa notare
nel finale. Tutto ciò può anche bastare per fare di The water diviner un bel film, emozionante e coinvolgente. Ma le
cose veramente interessanti sono altre. Innanzitutto, il titolo fa riferimento alla
capacità di Connor di trovare l’acqua nella desertica campagna australiana con
l’uso delle classiche bacchettine di legno. Una capacità che aiuterà l’uomo a
localizzare, precisamente, il punto in cui si trovano due dei suoi tre figli su
un campo di battaglia enorme e cosparso di cadaveri ormai decomposti.
Il
colonnello Hilton (Jai Courtney) rende esplicita la domanda che ogni spettatore
si era già fatto quando Connor aveva trovato l’acqua nella sua tenuta in
Australia: come ha fatto? La rabdomanzia non è riconosciuta a livello
scientifico, quindi la domanda è lecita. Ma Crowe non si premura affatto di
darci una risposta e questo, in un’opera formalmente confezionata come un tipico
prodotto cinematografico internazionale, è strano. In realtà, forse c’è
qualcosa che può aiutarci a capire, sebbene non sembri il tipo di soluzione che
ci si potrebbe aspettare in questo contesto. Perché c’è un’altra cosa che
lascia spiazzati, in The water diviner,
ed è una serie di passaggi che il montaggio cinematografico scombina mettendoli
fuori sequenza, quando Connor arriva a Gallipoli, all’hotel di Ayshe. Sotto una
luce eccessivamente giallognola, la cronologia degli eventi non viene
rispettata; sono passaggi per nulla importanti, ai fini della storia, se non
fosse che è il momento a suo modo fatale dell’incontro tra Connor e Ayshe.
Ma, anche
per questo loro essere secondari, salta all’occhio che nel loro scorrere ci
siano delle anomalie narrative: sono in pratica una serie di salti temporali,
ora aventi ora indietro, in una storia che prevede già un flasback predominante che riguarda il ricordo degli eventi bellici.
Tecnicamente hanno un effetto disturbante perché non se ne comprende il motivo:
ma la vicenda ci costringe, volenti o nolenti, ad andare oltre, perché poi la
storia procede ed entra nel vivo. Ecco, forse lo sforzo che ci è richiesto per accantonare
questi dubbi, queste perplessità, a fronte di un film che, in quegli attimi, non
rispetta le convenzioni narrative e le nostre abituali convinzioni, è della
stessa natura di quello richiesto alle persone coinvolte dai lutti della
guerra. D’altra parte poi il senso di quei passaggi scombinati siamo benissimo
capaci di assembrarlo da noi, mettendo mentalmente i frammenti al posto giusto.
Così come sembra anche chiaro cosa, almeno metaforicamente, aiuti Connor a
trovare i resti dei suoi figli: l’amore di padre. Insomma, bisogna essere
capaci di guardare oltre, di non ostinarsi a cercare una risposta tra quelle
che abbiamo già nel nostro bagaglio di conoscenze, smettere di incaponirsi su
dettagli fuorvianti, solo perché non rispondono alla nostra idea preventiva.
Provare semmai a fidarsi dell’altro,
anche se ci può sembrare una risposta difficile da capire, come la lingua turca
per un australiano, e ignota, come una città di un'altra cultura e di un’altra
religione. Ed oscura come una tazzina di caffè.
Quante belle donne.... Soprattutto la Kurylenko! 🙂
RispondiEliminaRussell ha l'occhio buono ;)
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