930_SHINING ; Stati Uniti, Regno Unito, 1980; Regia di Stanley Kubrick.
Quando si parla del film Shining si finisce spesso a riflettere sulla scarsa soddisfazione che ne ebbe Stephen King, autore del romanzo preso a soggetto dal regista Stanley Kubrick. Il Re del terrore letterario non ha mai risparmiato severe critiche all’adattamento del geniale Stanley e la cosa ha sempre destato una certa curiosità. I due autori sono ritenuti autentici maestri nei rispettivi ambiti di azione con bacini di pubblico non necessariamente in contrapposizione: com’era quindi possibile che il cineasta, tra l’altro ritenuto molto spesso il regista migliore in circolazione, avesse deluso in tal modo lo scrittore? Va detto che, oggettivamente, Kubrick opera anche stavolta in modo molto personale: prende il libro di King e lo smembra per darne poi una forma visiva sullo schermo spogliata di quasi tutta la costruzione narrativa che è una prerogativa oltre che uno dei punti di forza del letterato del Maine. Non si tratta solo di amputare varie parti del romanzo, mutilando in questo senso senza pietà la verve narrativa di King; anche da un punto di vista della costruzione del racconto, Kubrick smonta il meccanismo del libro, ad esempio facendo capire sin da subito, sin dalla prima espressione, che Jack Torrance (un mitico Jack Nicholson) è completamente svitato. King gioca spesso su tipici equilibri narrativi, per cui un personaggio può già anche essere segnato ma poi succede qualcosa, come andare a soggiornare in un hotel infestato, che lo spinge verso la follia. Quando il personaggio svolta, ci sorprende ma, siccome King è un fine narratore, mai del tutto inaspettatamente, perché a quel punto ci possiamo ricordare di questo o quell’antefatto che sul momento avevamo trascurato.
Questo meccanismo narrativo alimenta lo stupore in modo più consistente di un colpo di scena imprevisto e allo stesso tempo totalmente impossibile da prevedere. Del resto addirittura lo stesso Hoverlook Hotel ha una storia che ricalca uno di questi schemi: c’è nel passato dell’edificio un episodio di sangue ma, ancor prima, c’è il fatto che la costruzione sia stata realizzata su un vecchio cimitero indiano. Che un evento tragico possa avvenire dove c’è ne già stato uno in precedenza, può essere una coincidenza (con conseguente stupore del lettore di fronte al fatto imprevedibile che in sostanza è imprevedibile fino ad un certo punto), ma se tutto ciò avviene in una costruzione che si intuisce in qualche modo essere sacrilega, la sorpresa del lettore prende una diversa consapevolezza, quasi che fosse una cosa addirittura inevitabile (valutandola a posteriori, ovviamente). King, su questo genere di incastri narrativi, ci sguazza, irretendo il lettore in una ragnatela tra rimandi e richiami che è un assoluto maestro a creare.
L’horror, che è un genere quasi meccanico, è perciò perfettamente nelle sue corde come testimoniano i tanti best seller e capolavori che lo scrittore nel tempo ha sfornato. Kubrick, dal canto suo, è più interessato ad osservare cosa ci sia dietro e dentro la meccanica narrativa dei generi, nel suo caso cinematografici ma che hanno funzionamenti molto simili ad una letteratura come quella di King, che è estremamente visiva. Per questo motivo, come già fatto in passato con altri generi, Kubrick spoglia completamente il testo di King, lasciando prima nella sceneggiatura e poi sullo schermo solo quello che per lui è essenziale allo scopo di far funzionare il film. E’ evidente che è un’operazione poco riguardosa, nei confronti dello scrittore, perché mette in evidenza come la maggior parte delle parole profuse da King siano superflue, almeno secondo il regista.
Qui probabilmente nasce la contesa: secondo lo scrittore la sua prosa è il fulcro della sua arte; secondo Kubrick quello che fa funzionare un racconto è altro e quindi il suo intento è smontare il giocatolo per andare al nocciolo. Non c’è, da parte del regista, una volontà denigratoria nei confronti del testo scritto di King o almeno non specifica. Perché la semplice cronaca delle uscite cinematografiche di Shining ci dice che Kubrick riserverà in sostanza lo stesso trattamento usato nei confronti di Stephen King per un altro autore coinvolto nel progetto: Stanley Kubrick. Infatti, il regista preparò una versione di 146 minuti che venne proiettata alla première ma che non ottenne un’accoglienza troppo favorevole, al punto che il regista eliminò l’intera scena finale. Negli Stati Uniti venne quindi messo in circolazione il film, che già prevedeva sostanziali sforbiciate al racconto di King, della durata di 144 minuti.
Ma Kubrick non era ancora soddisfatto e, sulla base di un racconto che presentava già qualche sobbalzo narrativo, intervenne pesantemente al taglio producendo la versione internazionale del film della lunghezza di 119 minuti. Per volontà dello stesso regista, le due differenti versioni dovettero circolare nei due ambienti senza che vi fosse la possibilità, per gli spettatori, di vedere lo Shining non previsto dalla rispettiva distribuzione. Non sono dettagli marginali o semplici curiosità, visto che Kubrick si dimostrò particolarmente attento alla confezione delle varie edizioni nei paesi dove il film venne doppiato. Insomma, per il cineasta l’effetto che la sua pellicola doveva ottenere era fondamentale, al punto da controllare personalmente aspetti che, abitualmente, erano e sono lasciati nelle mani di specifici addetti ai lavori (spesso nemmeno troppo affidabili). Questo ci dà l’impressione di un autore che fosse molto interessato alla reazione che il suo film avrebbe ottenuto sul pubblico: in quest’ottica sembra quasi che l’idea di non uniformare le versioni dei film, possa indicare che Kubrick volesse valutare se 25 minuti di pellicola in meno aumentassero, diminuissero o lasciassero inalterato il giudizio degli spettatori. Certo è che la considerazione di assoluto genio del cinema che conosceva perfettamente i meccanismi della settima arte, esce un po’ incrinata da questa situazione. Forse, nei confronti del genere horror, Kubrick si comportò come un alchimista: ad esempio, la scelta di utilizzare abiti diversi ad ogni scena per Danny (Danny Lloyd), il figlioletto di Jack Torrance, era legata anche e soprattutto alla possibilità di collocare poi a piacimento, nel lungometraggio, i segmenti narrativi che vedevano il ragazzino sullo schermo.
Stando alle parole della costumista, Milena Canonero, si può anche ipotizzare che fosse una necessità di realismo nel rappresentare un figlio unico vezzeggiato dalla madre Wendy (Shelley Duvall), ma certo questo stratagemma lasciava libere le mani di Kubrick in sala di montaggio. Un ulteriore esempio di come l’autore avesse a priori l’intenzione di smontare e rimontare a piacere anche il cinema horror; del resto nel colloquio iniziale a Torrance viene spiattellato tutto quanto potrebbe succedergli, e ovviamente gli succederà, con un annullamento preventivo dell’effetto suspense. Intenzioni che, è onesto riconoscerlo, stavolta faticheranno a concretizzarsi in un risultato convincente nella sua totalità, almeno da un punto di vista canonico. Vero è che Shining ci regala alcune scene di grandissimo impatto che costituiscono parte fondamentale della fama del regista: ma il suo operare, il suo correggersi in corsa, dà comunque adito a qualche legittimo dubbio sulla consapevolezza dell’autore. Una mancanza di messa a fuoco che è avvertibile anche guardando il film, se riusciamo ad andare oltre alla magniloquenza delle immagini: Kubrick non sembra tanto interessato alla storia che sta raccontando, a differenza di King, ma questo pare metterlo in difficoltà quando deve sbrigare la pratica del finale. Come detto nelle fasi iniziali il regista sembra quasi divertirsi a scombinare i piani narrativi del soggetto ma poi, per dare un senso al suo lavoro, un finale andava trovato. Nel cinema dell’orrore, così come nel giallo o nel thriller, la conclusione condensa, riassume ed esplicita il senso di tutto il narrato: se si è smontato il meccanismo il rischio è che non si riesca più a trovare una chiusa efficace.
Non a caso il finale è stata una delle prime cose ad essere modificato, con il taglio completo di una sequenza che, come detto, si è potuto vedere solo alla première. Dopodiché, nonostante il finale monco, Kubrick non è rimasto lo stesso soddisfatto della sua opera, perché un horror fatica a convincere se si raggela e si scompone eccessivamente l’atmosfera narrativa. D’altra parte il lavoro di Kubrick atto a smontare i legami del racconto è capillare e profondo e si spinge anche a particolari dei dialoghi: nel romanzo il cuoco Hallorann (Scatman Crothers) quando appella per la prima volta Danny col soprannome di Doc, a Jack che gli chiede come facesse a conoscere il nomignolo del bambino, risponde che è per via della sua aria da saputello (dottorale, nel testo).
Una traccia volutamente lasciata labile da King che, a posteriori, contribuirà alla sorpresa di scoprire che il cuoco ha anch’esso la chiaroveggenza oggetto del racconto (lo shining). Diversamente Kubrick utilizza questo passaggio per creare, sul momento, la fastidiosa sensazione di un buco nella sceneggiatura: nel film, infatti, Hallorann risponde, stavolta a Wendy che comunque gli pone la stessa domanda, che deve aver sentito i genitori appellare così il figlio. Ma, sia noi spettatori che la donna nel film, sappiamo non essere vero: guardando la versione internazionale di Shining, si può quindi assimilare questo passaggio ai tanti salti che la sceneggiatura presenta e legati però alla forbice di Kubrick in sala di montaggio. E questo depotenzia l’effetto che un simile dialogo doveva/poteva avere: lasciar cioè intendere la chiaroveggenza del cuoco per spiegare razionalmente il passaggio poco chiaro nella sceneggiatura. Che invece può finire confuso nel marasma di tagli verti a scomporre la trama del racconto: ma si tratta, evidentemente, di aspetti secondari a ciò che importa veramente a Kubrick.
In realtà, le eventuali risposte andrebbero cercate se intendiamo Shining di Stanley Kubrick come la versione cinematografica del libro di Stephen King. E allora potremmo anche condividere le perplessità dello scrittore, come visto. Ma forse l’errore è proprio insistere in questo confronto; cioè, è interessante, perché da un certo punto di vista permette infine di smarcarci poi dalla disputa a ragion veduta. Comprendere le ragioni, mettiamola così, di King, può servire per provare poi a guardare il film Shining in un’ottica completamente diversa.
Bella questa cosa dei vestiti del bambino, quando si dice il "mestiere" ;)
RispondiEliminapoi penso che quando un libro è già di per sé molto visivo, come nel caso di King, nel trasferirlo si finisce sempre per farlo diventare qualcos'altro...
Se vogliamo i film fedeli al "dettato" scriviamo Montalbano :D
Si, sono d'accordissimo; anche se Misery, ad esempio, pare sia un'interpretazione fedele al romanzo anche nello spirito. Non lo so per certo perchè non ho letto il libro, ma è quello che si dice. Penso che De Palma, Cronenberg e Carpenter, per citare tre che hanno messo King sullo schermo, lo abbiano già interpretato alla loro maniera; Kubrick si è spinto un po' più in là.
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