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lunedì 22 novembre 2021

SHINING (Versione europea)

930_SHINING ; Stati Uniti, Regno Unito, 1980; Regia di Stanley Kubrick.

Quando si parla del film Shining si finisce spesso a riflettere sulla scarsa soddisfazione che ne ebbe Stephen King, autore del romanzo preso a soggetto dal regista Stanley Kubrick. Il Re del terrore letterario non ha mai risparmiato severe critiche all’adattamento del geniale Stanley e la cosa ha sempre destato una certa curiosità. I due autori sono ritenuti autentici maestri nei rispettivi ambiti di azione con bacini di pubblico non necessariamente in contrapposizione: com’era quindi possibile che il cineasta, tra l’altro ritenuto molto spesso il regista migliore in circolazione, avesse deluso in tal modo lo scrittore? Va detto che, oggettivamente, Kubrick opera anche stavolta in modo molto personale: prende il libro di King e lo smembra per darne poi una forma visiva sullo schermo spogliata di quasi tutta la costruzione narrativa che è una prerogativa oltre che uno dei punti di forza del letterato del Maine. Non si tratta solo di amputare varie parti del romanzo, mutilando in questo senso senza pietà la verve narrativa di King; anche da un punto di vista della costruzione del racconto, Kubrick smonta il meccanismo del libro, ad esempio facendo capire sin da subito, sin dalla prima espressione, che Jack Torrance (un mitico Jack Nicholson) è completamente svitato. King gioca spesso su tipici equilibri narrativi, per cui un personaggio può già anche essere segnato ma poi succede qualcosa, come andare a soggiornare in un hotel infestato, che lo spinge verso la follia. Quando il personaggio svolta, ci sorprende ma, siccome King è un fine narratore, mai del tutto inaspettatamente, perché a quel punto ci possiamo ricordare di questo o quell’antefatto che sul momento avevamo trascurato. 

Questo meccanismo narrativo alimenta lo stupore in modo più consistente di un colpo di scena imprevisto e allo stesso tempo totalmente impossibile da prevedere. Del resto addirittura lo stesso Hoverlook Hotel ha una storia che ricalca uno di questi schemi: c’è nel passato dell’edificio un episodio di sangue ma, ancor prima, c’è il fatto che la costruzione sia stata realizzata su un vecchio cimitero indiano. Che un evento tragico possa avvenire dove c’è ne già stato uno in precedenza, può essere una coincidenza (con conseguente stupore del lettore di fronte al fatto imprevedibile che in sostanza è imprevedibile fino ad un certo punto), ma se tutto ciò avviene in una costruzione che si intuisce in qualche modo essere sacrilega, la sorpresa del lettore prende una diversa consapevolezza, quasi che fosse una cosa addirittura inevitabile (valutandola a posteriori, ovviamente). King, su questo genere di incastri narrativi, ci sguazza, irretendo il lettore in una ragnatela tra rimandi e richiami che è un assoluto maestro a creare. 

L’horror, che è un genere quasi meccanico, è perciò perfettamente nelle sue corde come testimoniano i tanti best seller e capolavori che lo scrittore nel tempo ha sfornato. Kubrick, dal canto suo, è più interessato ad osservare cosa ci sia dietro e dentro la meccanica narrativa dei generi, nel suo caso cinematografici ma che hanno funzionamenti molto simili ad una letteratura come quella di King, che è estremamente visiva. Per questo motivo, come già fatto in passato con altri generi, Kubrick spoglia completamente il testo di King, lasciando prima nella sceneggiatura e poi sullo schermo solo quello che per lui è essenziale allo scopo di far funzionare il film. E’ evidente che è un’operazione poco riguardosa, nei confronti dello scrittore, perché mette in evidenza come la maggior parte delle parole profuse da King siano superflue, almeno secondo il regista. 

Qui probabilmente nasce la contesa: secondo lo scrittore la sua prosa è il fulcro della sua arte; secondo Kubrick quello che fa funzionare un racconto è altro e quindi il suo intento è smontare il giocatolo per andare al nocciolo. Non c’è, da parte del regista, una volontà denigratoria nei confronti del testo scritto di King o almeno non specifica. Perché la semplice cronaca delle uscite cinematografiche di Shining ci dice che Kubrick riserverà in sostanza lo stesso trattamento usato nei confronti di Stephen King per un altro autore coinvolto nel progetto: Stanley Kubrick. Infatti, il regista preparò una versione di 146 minuti che venne proiettata alla première ma che non ottenne un’accoglienza troppo favorevole, al punto che il regista eliminò l’intera scena finale. Negli Stati Uniti venne quindi messo in circolazione il film, che già prevedeva sostanziali sforbiciate al racconto di King, della durata di 144 minuti. 

Ma Kubrick non era ancora soddisfatto e, sulla base di un racconto che presentava già qualche sobbalzo narrativo, intervenne pesantemente al taglio producendo la versione internazionale del film della lunghezza di 119 minuti. Per volontà dello stesso regista, le due differenti versioni dovettero circolare nei due ambienti senza che vi fosse la possibilità, per gli spettatori, di vedere lo Shining non previsto dalla rispettiva distribuzione. Non sono dettagli marginali o semplici curiosità, visto che Kubrick si dimostrò particolarmente attento alla confezione delle varie edizioni nei paesi dove il film venne doppiato. Insomma, per il cineasta l’effetto che la sua pellicola doveva ottenere era fondamentale, al punto da controllare personalmente aspetti che, abitualmente, erano e sono lasciati nelle mani di specifici addetti ai lavori (spesso nemmeno troppo affidabili). Questo ci dà l’impressione di un autore che fosse molto interessato alla reazione che il suo film avrebbe ottenuto sul pubblico: in quest’ottica sembra quasi che l’idea di non uniformare le versioni dei film, possa indicare che Kubrick volesse valutare se 25 minuti di pellicola in meno aumentassero, diminuissero o lasciassero inalterato il giudizio degli spettatori. Certo è che la considerazione di assoluto genio del cinema che conosceva perfettamente i meccanismi della settima arte, esce un po’ incrinata da questa situazione. Forse, nei confronti del genere horror, Kubrick si comportò come un alchimista: ad esempio, la scelta di utilizzare abiti diversi ad ogni scena per Danny (Danny Lloyd), il figlioletto di Jack Torrance, era legata anche e soprattutto alla possibilità di collocare poi a piacimento, nel lungometraggio, i segmenti narrativi che vedevano il ragazzino sullo schermo. 


Stando alle parole della costumista, Milena Canonero, si può anche ipotizzare che fosse una necessità di realismo nel rappresentare un figlio unico vezzeggiato dalla madre Wendy (Shelley Duvall), ma certo questo stratagemma lasciava libere le mani di Kubrick in sala di montaggio. Un ulteriore esempio di come l’autore avesse a priori l’intenzione di smontare e rimontare a piacere anche il cinema horror; del resto nel colloquio iniziale a Torrance viene spiattellato tutto quanto potrebbe succedergli, e ovviamente gli succederà, con un annullamento preventivo dell’effetto suspense. Intenzioni che, è onesto riconoscerlo, stavolta faticheranno a concretizzarsi in un risultato convincente nella sua totalità, almeno da un punto di vista canonico. Vero è che Shining ci regala alcune scene di grandissimo impatto che costituiscono parte fondamentale della fama del regista: ma il suo operare, il suo correggersi in corsa, dà comunque adito a qualche legittimo dubbio sulla consapevolezza dell’autore. Una mancanza di messa a fuoco che è avvertibile anche guardando il film, se riusciamo ad andare oltre alla magniloquenza delle immagini: Kubrick non sembra tanto interessato alla storia che sta raccontando, a differenza di King, ma questo pare metterlo in difficoltà quando deve sbrigare la pratica del finale. Come detto nelle fasi iniziali il regista sembra quasi divertirsi a scombinare i piani narrativi del soggetto ma poi, per dare un senso al suo lavoro, un finale andava trovato. Nel cinema dell’orrore, così come nel giallo o nel thriller, la conclusione condensa, riassume ed esplicita il senso di tutto il narrato: se si è smontato il meccanismo il rischio è che non si riesca più a trovare una chiusa efficace. 

Non a caso il finale è stata una delle prime cose ad essere modificato, con il taglio completo di una sequenza che, come detto, si è potuto vedere solo alla première. Dopodiché, nonostante il finale monco, Kubrick non è rimasto lo stesso soddisfatto della sua opera, perché un horror fatica a convincere se si raggela e si scompone eccessivamente l’atmosfera narrativa. D’altra parte il lavoro di Kubrick atto a smontare i legami del racconto è capillare e profondo e si spinge anche a particolari dei dialoghi: nel romanzo il cuoco Hallorann (Scatman Crothers) quando appella per la prima volta Danny col soprannome di Doc, a Jack che gli chiede come facesse a conoscere il nomignolo del bambino, risponde che è per via della sua aria da saputello (dottorale, nel testo). 

Una traccia volutamente lasciata labile da King che, a posteriori, contribuirà alla sorpresa di scoprire che il cuoco ha anch’esso la chiaroveggenza oggetto del racconto (lo shining). Diversamente Kubrick utilizza questo passaggio per creare, sul momento, la fastidiosa sensazione di un buco nella sceneggiatura: nel film, infatti, Hallorann risponde, stavolta a Wendy che comunque gli pone la stessa domanda, che deve aver sentito i genitori appellare così il figlio. Ma, sia noi spettatori che la donna nel film, sappiamo non essere vero: guardando la versione internazionale di Shining, si può quindi assimilare questo passaggio ai tanti salti che la sceneggiatura presenta e legati però alla forbice di Kubrick in sala di montaggio. E questo depotenzia l’effetto che un simile dialogo doveva/poteva avere: lasciar cioè intendere la chiaroveggenza del cuoco per spiegare razionalmente il passaggio poco chiaro nella sceneggiatura. Che invece può finire confuso nel marasma di tagli verti a scomporre la trama del racconto: ma si tratta, evidentemente, di aspetti secondari a ciò che importa veramente a Kubrick. 


In ogni caso, a proposito di questo passaggio, il rimando ai cartoon di Tex Avery, con il coniglio Bugs Bunny e il suo tormentone
“What’s up, Doc?”, è invece sfruttato a dovere da Nicholson che si produce in una interpretazione che ricalca i vecchi cartoni animati dell’autore texano. In particolare tutta la mimica facciale dell’attore sembra dare un’interpretazione dal vivo del Lupo di Avery ai tempi della MGM (citato quasi in modo esplicito da Jack Torrance nella celebre scena con l’ascia), mentre un altro richiamo evidente a Bugs Bunny lo si può cogliere in una delle scene più strane e inquietanti del film (quella con l’uomo travestito da coniglio, appunto). 

In King è un modo per rendere concreta la follia che permea Torrance durante la permanenza all’Overlook Hotel, in Kubrick un ulteriore modo per seminare irrazionalità narrativa nel racconto. Al colloquio, infatti, vedendo Jack Nicholson, contenuto, questo sì, ma con un’espressione folle costantemente dipinta sul volto, nessuno gli affiderebbe la gestione di un hotel in completo isolamento. Tantomeno si andrebbe a cacciare in una situazione simile una donna già spaesata e titubante come la Wendy del film e tutto sommato già di inizio film (a differenza di quella del libro). 
Questi aspetti non infastidiscono, però, la visione della pellicola, anche perché è tipico delle storie dell’orrore che i personaggi si ficchino inopinatamente nei guai invece di scappare alla prima avvisaglia di pericolo. Può quindi sorgere il dubbio che sia questo il senso del lavoro di Kubrick: dimostrare come l’horror sia un genere che si basa su meccanismi quasi scientifici (la suspense, ad esempio) ma che per funzionare ha bisogno anche di un terreno totalmente illogico su cui attecchire. La meccanica (una disciplina matematica e quindi scientifica) dell’irrazionale. E’ una contraddizione, è chiaro, ma accettata in un patto stipulato a priori: del resto lo spettatore è ben consapevole che la storia gli farà paura ma vuole ascoltarla proprio per questo, e quindi è disposto ad accettare qualche
licenza poetica narrativa. Forse Kubrick prova ad inserirsi in questo tacito e consueto accordo tra autori e fruitori: e se il protagonista, non impazzisse solo ad un certo punto, ma fosse già chiaro sin dall’inizio che siamo di fronte ad un folle? E se foste a conoscenza sin da subito del fatto di sangue precedente nell’hotel e del suo probabile legame con il sacrilegio in fase di costruzione dell’edificio? E se il castello narrativo non assecondasse tutte le vostre necessità emotive in modo consueto?
In realtà, le eventuali risposte andrebbero cercate se intendiamo Shining di Stanley Kubrick come la versione cinematografica del libro di Stephen King. E allora potremmo anche condividere le perplessità dello scrittore, come visto. Ma forse l’errore è proprio insistere in questo confronto; cioè, è interessante, perché da un certo punto di vista permette infine di smarcarci poi dalla disputa a ragion veduta. Comprendere le ragioni, mettiamola così, di King, può servire per provare poi a guardare il film Shining in un’ottica completamente diversa. 


Ad, esempio, si potrebbe azzardare che il film di Kubrick sia la realizzazione plastica, tridimensionale, di una ipotetica mente che potrebbe, siamo sempre nel campo delle ipotesi, aver partorito lo
Shining racconto. Allora, nell’inconscio di questo ipotetico scrittore, in cui possiamo scrutare come spettatori privilegiati, il tempo ha un senso relativo, proprio come avviene nei sogni, per esempio. Prende così ragion d’essere la mancanza di senso delle tante e stucchevoli didascalie e assumono significato anche i salti di sceneggiatura: sono, infatti, le perfette caratteristiche del campo onirico. In questo senso emerge anche una chiave di lettura per la casa contrapposta al labirinto esterno: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la prima è il luogo del pericolo, della paura, mentre il secondo condurrà il bambino e sua madre alla salvezza. 

La casa con i suoi ambienti accoglienti, i saloni d’orati, (ma per la verità anche i corridoi inquietanti) gronda sangue ed è popolata da spettri. Questi sono autentiche star della pellicola e, nel citato senso onirico, il film di Kubrick è straordinario, soprattutto per le scene con il barista Lloyd (Joe Turkel) e quella del bagno rosso con il cameriere/vecchio custode (Philip Stone). Nelle viscere dell’hotel/inconscio pulsa vivo calore, anche se poi la caldaia, nel film, è una traccia lasciata cadere nel vuoto insieme a tante altre. Ma la contrapposizione con il freddo del labirinto innevato rimane evidente: gli ambienti presentano palesi similitudini, i corridoi in cui scorrazza Danny col triciclo somigliano a quelli di un dedalo e Wendy, quando visita l’enorme cucina, cita lo stratagemma delle briciole di pane per ritrovare la strada, che è uno dei modi per trovare la via di uscita proprio nei labirinti. Gli aspetti simili sono usati nel paragone tra la casa labirintica e il labirinto esterno per esaltarne le differenze e quello del labirinto, che è in qualche modo un gioco di memoria e quindi celebrale, sembra rappresentare la ragion pura come possibilità di salvezza, a patto di mantenere lucidità (lo stratagemma delle impronte ideato da Danny) e sangue freddo. 

I nostri demoni, possono essere affrontati e superati dalla freddezza della ragione e venire quindi, se non proprio annientati, perlomeno congelati, proprio come Jack Torrance nel finale. Questa, più che lo
shining, la luccicanza, la chiaroveggenza, è la nostra unica arma di salvezza. E’ vero che Hallorann interviene grazie a questa facoltà che condivide con Danny, ma in una delle scene più efficaci del film è presto fatto fuori da Torrance. Certo, il suo ritorno sulla scena rimane provvidenziale, visto che è il suo gatto delle nevi che permette a Danny e la madre di salvarsi, ma grazie al loro assai prosaico e per nulla paranormale sangue freddo. E’ un grande film, quindi, Shining? Si, e non solo visivamente. E dietro il trauma delle immagini, ci fa addirittura coraggio: i nostri demoni si possono tenere a bada e per farlo non serve alcuno shining.  






  Shelley Duvall


2 commenti:

  1. Bella questa cosa dei vestiti del bambino, quando si dice il "mestiere" ;)
    poi penso che quando un libro è già di per sé molto visivo, come nel caso di King, nel trasferirlo si finisce sempre per farlo diventare qualcos'altro...
    Se vogliamo i film fedeli al "dettato" scriviamo Montalbano :D

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  2. Si, sono d'accordissimo; anche se Misery, ad esempio, pare sia un'interpretazione fedele al romanzo anche nello spirito. Non lo so per certo perchè non ho letto il libro, ma è quello che si dice. Penso che De Palma, Cronenberg e Carpenter, per citare tre che hanno messo King sullo schermo, lo abbiano già interpretato alla loro maniera; Kubrick si è spinto un po' più in là.

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