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giovedì 11 febbraio 2021

L'ISOLA NEL SOLE

749_L'ISOLA NEL SOLE (Island in the Sun). Stati Uniti1957. Regia di Robert Rossen.

In genere considerato come uno dei passaggi a vuoto del quotato Robert Rossen, L’isola nel sole è, in effetti, un film che non coglie, se non minimamente, le proprie potenzialità. Nonostante un cast stellare, (James Mason, Joan Fontaine, Dorothy Dandridge, Joan Collins, Harry Belafonte) una location esotica (Santa Marta, presunta isola caraibica), un canovaccio con una miriade di spunti buoni per incendiare il classico drammone del periodo, Rossen non riesce ad andare oltre ad un’onesta messa in scena. Per la verità qualcuno degli interpreti cerca di nobilitare il risultato ma, purtroppo, anche l’operato del cast non è omogeneo e viene meno proprio in uno dei suoi cardini previsti. A deludere maggiormente è infatti Harry Belafonte: nel film è David Boyeur, nativo dell’isola che rivendica la libertà per il suo popolo, ma si rivela un personaggio stereotipato a cui il glorioso cantante americano non riesce a dare il carisma necessario per interpretare la parte del leader dei diritti civili. Il paragone con Maxell Fleury, evocato anche dal confronto diretto durante un comizio politico, sebbene siano lampanti le ragioni di Boyeur, è cinematograficamente impietoso. James Mason, chiamato ad interpretare Fleury, un proprietario di una piantagione presso la quale lavorano decine di persone del posto, sfodera una prestazione attoriale degna delle sue capacità che, sebbene appaia di altro tenore rispetto a quella di Belafonte, non viene però valorizzata dalla mancanza di una sponda adeguata. D’altra parte anche Patricia Owens, che è Sylvia, la moglie di Fleury, è troppo anonima e allora Mason ha le sue uniche occasioni con Michael Rennie (è Carson) o con il caratterista John William (è il colonnello Wittingham), che hanno però ruolo solo nella traccia gialla che, ad un certo punto, subentra nella storia. Nei drammoni hollywoodiani degli anni cinquanta l’elemento delittuoso poteva anche capitare, visto le forti tensioni emotive, ma in questo caso l’operazione non viene gestita a dovere da Rossen: forse aiuta il regista a dare un po’ di ritmo al suo racconto ma è una deviazione che, vista la tanta carne al fuoco, sembra del tutto superflua. Ma a patire maggiormente della prestazione scialba di Belafonte, a cui non basta nemmeno uno breve spazio canoro per risollevare il suo contributo, è Joan Fontaine che interpreta Mavis, una donna non più giovanissima che se ne innamora. 


Il contrasto tra una star dalla bellezza delicata e nobile come quello della Fontaine, la cui recitazione sospesa amplificava queste sue caratteristiche, e un interprete poco espressivo come Belafonte non funziona granché anche se, volendo, può sottolineare come non fosse possibile un’intesa nemmeno tra i loro personaggi. Ma è una consolazione da poco. Alla fine, visto i problemi riscontrati dal bravo Mason (che deve vedersela anche con Delitto e Castigo, il libro di Dostoevskij; francamente, in aggiunta al confronto razziale, a quello famigliare e alla trama gialla, sembra un po’ troppo in un solo film anche per un attore del suo rango) a salvare L’isola nel sole dal naufragio sono la brava Dorothy Dandridge e, soprattutto, la giovane ma già decisiva Joan Collins. La Dandridge interpreta Margot, una ragazza nativa di cui si invaghisce un funzionario inglese: la semplicità con cui la giovane scarica Boyeur, con cui avrebbe composto una canonica coppia di colore, per accasarsi con un partito più vantaggioso, considerato il contesto sociale, provoca un po’ di amara ironia da parte del leader politico degli isolani. Ma è solo la sua incapacità a guardare oltre agli steccati che pure egli stesso vuole abbattere, a farlo parlare così. Forse, si tratta del punto di vista di Rossen, o comunque della vicenda, visto che, nel finale, è sottolineato come al tempo fosse accettabile che un uomo bianco avesse una relazione con una donna di colore mentre il contrario non veniva tollerato. 

Considerazioni innegabili ma a cui va dato il giusto rilievo, diversamente si rischia di accrescerne l’influenza: ad esempio, non si combatte il razzismo facendo l’illazione che Margot scelga un inglese piuttosto che un uomo locale perché vittima lei stessa del pregiudizio, quando invece la risposta più ovvia potrebbe essere perché ne è semplicemente innamorata. Così, quando Boyeur pontifica che un’unione con Mavis non possa funzionare perché, prima o poi, magari in un momento di rabbia, lei gli avrebbe rinfacciato di essere un negro [cit. dai dialoghi del film],
si arriva al nocciolo della questione. Ecco, forse il limite in questo aspetto del film è in quel terrore di una parola, di un concetto, che invece andrebbe depotenziato: va bene, in americano nigger è un termine offensivo ma il significato che veicola non lo è. 

Non è offensivo avere sangue africano e forse bisognerebbe dare più peso al vero significato delle parole rispetto a quello che qualcuno gliene vuole dare. Poi, per carità, la vita reale è un altro discorso che non è però legato necessariamente al cinema e a questo film; perché, forse, il cinema, quando decide di affrontare temi sociali, dovrebbe provare a spostare l’asticella un po’ più in là e non a rifugiarsi velocemente nel politicamente corretto o sciatterie simili. In punto è che Boyeur ritenga inaccettabile essere offeso dalla compagna in una lite, se quell’offesa è inerente alla sua etnia piuttosto che ad una sua eventuale calvizie o obesità; rinfrancando, in questo senso, la solidità delle discriminazioni razziali. Cosa anche comprensibile, umanamente, sia chiaro, ma da uno che si professa leader di un intero popolo (e da un film che si pone quello razziale come argomento negli anni cinquanta) ci si aspetterebbe molto più coraggio e almeno un pizzico di audacia. Molto meglio l’atteggiamento di Margot allora, che, fatta salva una saggia circospezione di natura pratica, affronta l’argomento di un’unione mista (lei caraibica e lui inglese) per quello che è: un’unione tra un uomo e una donna. 


In questo guazzabuglio di convenzioni, convinzioni e discriminazioni, meglio ancora si dipana il personaggio di Jocelyn, che poggia le sue fortune sulla verve interpretativa (oltre che sulle notevoli grazie) di Joan Collins, attrice capace come poche altre di tratteggiare personalità controverse e combattute, spesso anche con debolezze, ma sempre volitive. In L’isola nel sole, in sostanza, sono le sfumature che riesce ad imprimere al suo personaggio gli aspetti più interessanti di tutta quanta l’opera. Certo, la sua Jocelyn avrebbe meritato un successo come Un posto al sole (1951, di George Stevens) o un altro drammone dell’epoca ma, come detto, il minestrone assemblato dal produttore Darryl F. Zanuck era troppo pesante per le capacità di Rossen. 

Tuttavia, la serie di colpi di scena che interferiscono nella storia d’amore tra Jocelyn e Euad (Stephen Boyd), il figlio del governatore dell’isola, danno modo alla Collins di sfoderare la sua personalità, mai banale e sempre stimolante. Joan è di una bellezza che vale qualunque altra diva nella Storia di Hollywood (senza eccezioni) ma ha, oltre a quella, un fascino magnetico nello sguardo, qualcosa in grado di andare al di là della gradevolezza dell’aspetto, che l’attrice fu fin da subito, fin dagli inizi della carriera, in grado di valorizzare al meglio, piegandola alle varie necessità interpretative. In L’isola nel sole è una splendida ragazza nubile, figlia di proprietari terrieri, che perde il tempo spassandosela, almeno per quello che una piccola isola caraibica può concedere ad una giovane. 

Quando la vede Euad, figlio del governatore e Pari d’Inghilterra, se ne innamora seduta stante (comprensibilmente, visto come la Collins si aggira in costume da bagno). L’interesse di un Pari d’Inghilterra non è cosa da poco ma Jocelyn non stramazza ai piedi di Eaud come una banale ragazzina; probabilmente vorrebbe anche farlo, vista la portata dell’occasione, ma prova a darsi un po’ di contegno, con mestiere. E già qui la Collins è notevole, nella calcolata incertezza con cui prova a rendere quest’impressione. Quando le cose sembrano andare per il meglio, e il nobile giovane dichiara la sua intenzione di sposare la ragazza, dal giornale locale arriva la notizia scioccante che la nonna di Jocelyn era di sangue misto. L’obiettivo dell’articolo era colpire Maxell (il personaggio di Mason) impegnato in una campagna politica, ma ad andarci di mezzo è anche sua sorella Jocelyn. L’idea che un Pari d’Inghilterra possa congiungersi in matrimonio ad una donna con sangue africano nelle vene non è tanto praticabile e la ragazza, per amore di Euad, decide di fare un passo indietro. Pur nel romanticismo di questi passaggi, che sono peculiari dei drammi degli anni cinquanta, Jocelyn non è ipocrita, lamentandosi, in un primo momento, di veder svanito tutto quanto il proprio mondo fatato. Ma non sottopone a questo innegabile rimpianto, ovvero godere di privilegi (umanamente, sentimento comprensibile) le proprie scelte visto che, piuttosto si afferma, dentro di lei, la volontà di non sposare Euad, nonostante questi insista incurante delle dicerie diffuse dalla stampa. 


Ma, si è detto, il segmento narrativo dedicato alla famiglia Fleury (che annovera anche i problemi di Maxell col padre, la madre e la moglie) sarebbe stato da solo sufficiente come soggetto per l’intero film e il successivo colpo di scena è che Jocelyn è già rimasta incinta. Confidandosi a colloquio con la madre cerca da lei conforto e aiuto per andarsene da sola in Canada, un luogo abbastanza lontano per provare a non recare scandalo all’amato. Dopo qualche prevedibile reprimenda per l’inopinata scappatella, la madre, al contrario, la invita ad accettare l’ultima proposta dell’uomo, che vuole sposarla al più presto; in questo modo i tempi potrebbero essere plausibili. Ma Jocelyn teme che il suo sangue africano possa fare capolino, in questo figlio o in eventuali altri, e non vuole comunque fare correre rischi di scandalo ad Euad. 

Probabilmente è questo il passaggio più delicato dell’intero film, oltre che un momento assai interessante. La madre accusa Jocelyn di avere idee arretrate, il che può anche essere vero, in generale, ma in questa circostanza le motivazioni della giovane sembrano di natura diversa. In questo momento Jocelyn è talmente innamorata di Euad che non vuole recargli alcun danno; non si preoccupa minimamente della natura, legittima socialmente o meno, di questi danni. Non vuole essere la causa di sofferenza per l’amato, che è una delle condizioni portanti del sentimento amoroso che deve avere infatti intenti opposti al creare problemi a chi si ama. La questione razziale, da Jocelyn, è trattata con noncuranza, in questa circostanza, nonostante la riguardi da vicinissimo; in fondo ha appena appreso di essere una meticcia. 

Eppure, a fronte dell’amore per Euad, non sembra dare alcun peso alla cosa, in sé, visto che è preoccupata solo dell’eventuale scandalo che potrebbe colpire il futuro marito. Il trasporto sentimentale con cui la Collins evidenzia questo passaggio è il suggello ideale: non solo l’amore è un tema di rango superiore al problema razziale, ma è anche la risposta per risolverlo. Tuttavia l’ennesimo colpo di scena è dietro l’angolo: la madre confessa a Jocelyn di aver tradito a suo tempo il marito e, di conseguenza, la ragazza non è discendente dalla nonna con sangue misto nelle vene. Basterà chiarire la cosa col governatore, umiliazione a cui la madre si offre di sottoporsi ma che Jocelyn non accetta come sacrificio. In fondo, il rischio di un figlio coi capelli crespi è scongiurato e quindi la ragazza può partire con Euad per l’Inghilterra. Il che sembra un po’ il tipico cerchiobottismo della narrativa di un tempo (quella in cui, dopo aver combattuto contro i privilegi nobiliari, il protagonista di umili origini, dopo mille imprese rivoluzionarie, scopriva che lui stesso era di stirpe aristocratica). Invece no. Perché l’aeroplano che porta Jocelyn e Euad imbarca anche Margot e il suo fidanzato inglese, e la cosa è rimarcata da un’altra coppia mista, Boyer e Mavis, con un certo rimpianto. Coppie miste con l’uomo bianco, sono ancora accettabili, coppie miste se l’uomo è di colore, no: è quanto convengono i due, prima di lasciarsi. Quindi, forse è un dettaglio narrativo, certo, ma Jocelyn accetta di passare per meticcia pur di sposare l’amato Euad; d’accordo, il fatto che questi sia un
Pari d’Inghilterra non è che sia vissuto come un peso, questo è evidente. Ma il denaro, la posizione sociale, sono dettagli; o meglio opportunità che, se possibile, è meglio cogliere, come fa anche Margot, anch’essa a bordo. Il punto cruciale è ancora quello: la soluzione della questione razziale è l’amore.  



Joan Collins







Joan Fontaine




Dorothy Dandridge



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