Translate

sabato 13 febbraio 2021

SPIONAGGIO A TOKYO

751_SPIONAGGIO A TOKYO (Stopover Tokyo). Stati Uniti1957. Regia di Richard L. Breen.

Il curioso fatto che Spionaggio a Tokyo sia l’adattamento di un racconto di Mr. Moto, l’agente segreto giapponese in voga negli anni cinquanta, da cui sia stato cancellato il protagonista, è già un indice che quello diretto da Richard L. Breen non nasca sotto grandi auspici. Perché i romanzetti di John P. Marquand erano soggetti che reggevano al cinema perché la figura di Mr. Moto era interpretata da Peter Lorre, non certo per lo spessore delle storie raccontate. Certo, nulla toglie che si possa prendere un buono spunto anche da un soggetto da quattro soldi, ma poi occorre lavorarci in modo serio in sede di adattamento e sceneggiatura; e girare il tutto con mano capace alla regia. Tutte cose che sono invece carenti in Spionaggio a Tokyo e che si definiscono, appunto, come lo sviluppo di un film. Il risultato, peraltro, non è disastroso perché ad Hollywood erano bravi a salvarsi in corner e, anche quando la barca faceva acqua da tutte le parti, riuscivano a condurla in porto in qualche modo, aiutandosi con la capacità di confezionare al meglio i loro prodotti. Le immagini del Giappone del dopoguerra, in particolar modo quelle di Kyoto, città che non era stata bombardata e si presentava con l’aspetto tradizionale, sono molto evocative e spesso sono considerate l’unico pregio del lungometraggio. In effetti, Richard L. Breen, onesto sceneggiatore qui chiamato a dirigere l’unico film della carriera, non sembra essere in grado di gestire in modo adeguato la regia, oltretutto dovendo girare con la pellicola in CinemaScope, ottima per le location ma dall’utilizzo meno scontato per dare ritmo ad una storia. 


Il formato panoramico consentiva spesso di vedere tutte e due i protagonisti di un dialogo, d’altra parte lo schermo andava pur riempito; ma questa scelta andava sovente a sostituirsi al classico dialogo in campo/controcampo. Purtroppo in questo modo si perdeva ritmo narrativo, dettato dal montaggio alternato, e veniva meno anche il processo di immedesimazione dovuto alla sorta di soggettiva che era costituita dal primo piano ravvicinato di un interlocutore. Che sono esattamente i principali problemi di cui soffre Spionaggio a Tokyo. Si può infatti erroneamente pensare che la scarsa empatia dei personaggi sia legata alle non memorabili prestazioni di Robert Wagner (è Mark Fennon, agente del controspionaggio americano) e Joan Collins (è Tina Llewellyn, impiegata all’aeroporto di Tokyo) ma i due giovani interpreti sembrano più che altro cercare di disimpegnarsi alla svelta. Il che non depone a loro favore, è chiaro, ma sembra evidente anche allo spettatore distratto che non ci fossero proprio le condizioni per prestazioni attoriali di rango, visto l’assurdità di certi passaggi del copione. Fennon, sostanzialmente ignora le relativamente tiepide avances di Tina (che è già difficile da credere, visto il look da diva che sfodera la Collins), salvo poi presentarsi a casa della donna con una bambina orfana (figlia dell’agente segreto locale rimasto ucciso) da accudire. Visto che questo era lo sviluppo della storia, sarebbe stato più utile, al fine di rendere credibile l’accondiscendenza con cui Tina accoglie la piccola Koko (Reyko Oyama), un precedente maggior coinvolgimento emotivo di Fennon. 

Che in seguito comunque arriva, mettendo l’uomo in concorrenza col collega Tony Barrett (Ken Scott), sorta di blando fidanzato di Tina: nonostante il triangolo sentimentale, la vicenda non si infiammerà mai sotto questo aspetto e, visto l’avvenenza del duo protagonista, è forse proprio questo il punto in cui l’opera tradisce le attese. Non è che le scene di azione, si tratta pur sempre di un film di spionaggio, facciano spellare le mani dagli applausi, questo proprio no, anche se Edmond O’Brien sembra divertirsi nel ruolo del cattivo e anche i poliziotti locali sono simpaticamente funzionali a dare un po’ di brio al racconto. Però Wagner interpreta in modo troppo ligio la parte dell’agente segreto che, da manuale, non deve avere cedimenti sentimentali; la Collins sembra più che altro sconsolata per aver ricevuto in cambio, a mo’ di ricompensa, al mancato film di Rossellini che le aveva promesso la 20th Century Fox, due opere scialbe come il precedente La sposa del mare e questo Spionaggio a Tokyo. In ogni caso le scene nell’abito di raso di seta blu che la fascia completamente sono memorabili e l’attrice si permette di chiudere in modo originale la contesa tra Fennon e Scott, i suoi due pretendenti per il lieto fine. E c’è da dire che la trama prospettava una chiusura piuttosto melensa, con la piccola Koko che poteva fungere da ciliegina sulla torta di un quadretto famigliare per la verità un filo posticcio. Tina, però, attinge dalla caparbia volontà della Collins e, nonostante il momento romantico, rifiuta le proposte tanto di Scott che di Fennon. Quest’ultimo è così costretto a far rientro in America da solo visto che, a quel punto, perfino la piccola orfana giapponese preferisce restare con la sua tata. Ecco, il finale, se non altro, per quanto ben poco avvincente o emozionante, è coerente con il resto di un film non certo memorabile. Ma è una magra consolazione.   





   Joan Collins


Nessun commento:

Posta un commento