945_GALLIPOLI; Turchia, 2005; Regia di Tolga Örnek.
Nel 2005, novant’anni dopo gli eventi, la campagna dei Dardanelli durante la Prima Guerra Mondiale era stata fin lì rappresentata al cinema da differenti punti di vista. I turchi, nel 1964, avevano prodotto Canakkale Arslanlari (di Nurset Eraslan e Turgut Demirag), gli inglesi avevano detto la loro prima nel 1932 con Tell England (di Anthony Asquith e Geoffrey Barkas) e poi, nel 1999, con All the King’s men (di Julian Jarrold), ma erano più interessanti le voci provenienti dall’alta parte del globo. Andando a ritroso nel tempo, si partiva dal neozelandese Chunuk Bair (1992, di Dale G. Bradley) per passare alle serie televisive australiane Anzacs (1985, di John Dixon, George T. Miller e Pino Amenta) e 1915 (1982, di Scott McGregor, Scott Burgess e Sigrid Thorton) anche se il capolavoro assoluto dedicato ai tragici fatti restava naturalmente Gli anni spezzati (1981, di Peter Weir), anch’esso proveniente dalla terra dei canguri. E’ curioso come nei paesi australi coinvolti la campagna di Gallipoli abbia avuto un tale impatto, sebbene a livello cinematografico abbia dovuto passare del tempo prima che il tema venisse affrontato. Tuttavia se consideriamo il coinvolgimento emozionale di australiani e neozelandesi, le difficoltà inglesi a gestire la sconfitta (ancora palesi nel 1999 nel film BBC di Jarrold citato), forse erano proprio i turchi ad avere lo stato d’animo migliore per provare a stilare una sorta di bilancio cinematografico (come lo è un film di genere documentario) sugli eventi. In fondo il vecchio Canakkale Arslanlari, conosciuto anche come The Lions of Gallipoli, aveva delle pecche (leggi, visioni parziali o faziose) ma anche generose e assolutamente inaspettate concessioni al nemico (il soldato turco curato dagli inglesi, la storia d’amore tra lo stesso militare e un’infermiera della controparte).Naturalmente non vi fu nessuna selezione per
aggiudicarsi il diritto di girare Gallipoli ma, rimanendo in tema di
curiosità, sorprende che un documentario cinematografico non solo del valore e
dello spessore ma soprattutto dell’equilibrio e della ponderata equidistanza
tra le parti in causa, come lo è il film di Tolga Örnek, sia stato
prodotto nel paese che, in quella storica campagna, subì la violenta
aggressione militare. C’era qualche perplessità preventiva, in verità, in
quanto il regista aveva nel curriculum qualche film non proprio imparziale, in
questo senso; invece Gallipoli, al di là di una anche prevedibile (ma
non giustificale) sostanziale omissione sulla questione armena, affronta
con apprezzabile serenità di giudizio i tragici avvenimenti.
Senza dimenticarsi
di sostenere il racconto con buon ritmo e azzardare qualche scelta autoriale,
pur mantenendo una serietà complessiva ragguardevole. E la chiamata in causa,
tra gli altri come narratori, di Jeremy Irons (britannico) e Sam Neil
(neozelandese), sembra proprio il voler dar voce anche alla controparte. Tra
l’altro, Gallipoli, basandosi sulle lettere dei soldati, si fonda
maggiormente su missive degli alleati; probabilmente, almeno stando alla
spiegazione che dà lo stesso Örnek nel film, per via dello scarso grado di
alfabetizzazione dei militari turchi impegnati nella battaglia e la scarsa
disponibilità di materiale conseguente. Questo aspetto alimenta l’impressione
generale che gli eventi siano visti in luce obiettiva: e i turchi che
familiarizzano, in un certo senso, con i nemici dell’Anzac (Australian
and New Zealand Army Corps), sembrano seppellire definitivamente, in senso
reciproco, i rancori e le ruggini inevitabili vista la violenza degli scontri. A
fronte di questo atteggiamento maturo, se i francesi sono sostanzialmente
ignorati per via del ruolo marginale, desta più sensazione il fatto che degli
inglesi il documentario cinematografico si soffermi sostanzialmente solo a
sottolineare la scarsa e fallimentare organizzazione delle operazioni militari.
La cosa è peraltro risaputa, come anche una certa ritrosia diffusa al di là
della Manica ad affrontare le situazioni scomode. Ma ce ne siamo fatta
una ragione ormai da decenni. Piuttosto, non resta che apprezzare e applaudire
la sportività di turchi, neozelandesi e australiani per il rispetto che
hanno imparato a dimostrarsi a vicenda, superando gli antichi dissapori.
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