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giovedì 30 dicembre 2021

TEMPESTA SU WASHINGTON

949_TEMPESTA SU WASHINGTON (Advise &consent); Stati Uniti, 1962; Regia di Otto Preminger.

Esempio perfetto della poetica del cinema di Otto Preminger nel suo periodo più maturo, Tempesta su Washington è un film notevole. Stavolta sul tavolo da anatomia del lucido e implacabile regista finisce la Costituzione Americana, per rifarsi alle sue parole; nello specifico è il Senato degli Stati Uniti d’America ad essere teatro della vicenda tratta dal romanzo Premio Pulizer Advise & Consent di Allen Drury. Il titolo del libro, che poi è anche quello originale del film, fa riferimento alla forma collaborativa (consulenza & consenso) che ci deve essere tra la Presidenza degli Stati Uniti e il Senato nella nomina di tutti gli alti ufficiali governativi. In questo caso si tratta del segretario di stato e se Allen ci ricava un romanzo sorprendente (opera prima e frutto di un’esperienza come corrispondente al congresso) Preminger, da uno spunto tutto sommato tanto labile, imbastisce un gran bel film hollywoodiano che, oltretutto, si colloca coerentemente nella sua cifra stilistica. Il formidabile autore si premura di fornirci subito le chiavi di lettura del suo film: per manifesti, locandine e titoli è chiamato Saul Bass (ormai un habitué di Preminger) che, con la sua sublime arte grafica, stilizza ma al contempo definisce al meglio il messaggio che deve veicolare. In questo caso abbiamo la figura del Campidoglio, sede del Congresso, scoperchiata e dal quale emergono, a seconda dei casi, ora il titolo del film ora i nomi degli artisti coinvolti. Quest’immagine, richiamata poi nel film anche da una battuta del senatore Colby (uno strepitoso Charles Laughton) è esattamente l’operazione che compie Preminger, andando ad analizzare nel dettaglio i contorti meccanismi della politica americana. 

Ma attenzione: la poetica matura del regista è sempre un bisturi a doppia lama, come appunto indica la grafica di Bass, stilizzata ma talmente efficace da essere più chiara di un disegno realistico. Lo sguardo di Preminger, che ci porta ad osservare come funziona la politica statunitense nel dettaglio (la semplice nomina di un segretario di stato), non è affatto malevolo, anzi. E’ perfettamente percepibile una sorta di ammirazione per la nobiltà di intenti che, in fondo, grosso modo tutti i protagonisti hanno, anche quelli che si macchiano delle azioni più riprovevoli. Al tempo stesso, Preminger, se da immigrato nato nell’Europa imperiale guarda con benevolenza e ammirazione la funzionalità dell’apparato democratico statunitense, non lesina i colpi bassi, tremendi, a quelle istituzioni americane, come la MPAA (Motion Pictures Association of America) e il suo Codice Hays, che interferivano con la libertà autoriale del cinema. C’è il primo gay-bar della storia del cinema mainstream, e già questo non è un dettaglio poi secondario, se consideriamo le conseguenze della vicenda del ricatto al senatore Anderson (Don Murray). Ma c’è soprattutto la figura di Herbert Gellman, ambiguo testimone che è interpretato da quel Burgess Meredith finito nella lista nera di Hollywood nel dopoguerra con l’accusa di essere simpatizzante comunista. La stessa che ora il suo personaggio imputa al senatore Leffingwell (Henry Fonda), il suddetto candidato al ruolo di segretario di stato. Come sempre, in Preminger, l’accusa di Gellman è intrisa di menzogne e di verità allo stesso tempo. 

Fonda, visto il suo aspetto e anche il suo curriculum (basti citare La parola ai giurati, 1957, regia di Sidney Lumet) era garanzia di moralità ma qualche scheletro nell’armadio il suo Leffingwell ce l’aveva. Niente di drammatico, sia chiaro: da giovane aveva avuto simpatie comuniste, era vero. Ma se ora lo confessava, ci sarebbero andati di mezzo anche i compagni di allora: in America, essere comunisti era grave ma anche esserlo stato in passato poteva avere sgradevoli conseguenze. Leffingwell decide così di smascherare le bugie di Gellman omettendo, però, di chiarire laddove questi diceva il vero. In sostanza mente alla commissione istituita dal senato per valutare la sua idoneità come candidato: e, giustamente, per un politico mentire è un reato capitale; perlomeno in America. Come si vede la situazione non è così netta: il candidato non è comunista e se non ammette i suoi trascorsi è solo per non danneggiare altri che non hanno il suo peso nella società e verrebbero travolti dallo scandalo senza avere, come nel suo caso, l’appoggio del Presidente degli Stati Uniti. Una situazione tipicamente premingeriana, tanto precisa nel descrivere i risvolti morali della realtà ma da cui è impossibile ricavarne una posizione netta. 

Del resto, in un dialogo tra il senatore Anderson e il senatore Monson (Walter Pidgeon) emerge proprio la contraddizione della realtà: il primo, incaricato di presiedere la suddetta commissione, aiutato dalle manovre del senatore Colby, ha capito che Leffingwell ha mentito. Monson, lo invita alla moderazione, osservandogli come in politica non sia mai tutto bianco e nero, ma Anderson sbotta, in questo caso sì, la questione pare chiara: una bugia è una bugia. Il riferimento al bianco e nero ci riporta alla superba fotografia di Sam Lewitt, che ammanta con una suprema definizione dalle mille tonalità di grigio l’aula del Campidoglio. In pratica un bianco e nero (elementi in contraddizione) quasi senza bianchi e neri. Coerente con questo doppio binario anche l’ambientazione della storia: prevalentemente ci si trova nell’aula del senato, ampia, aperta, pubblica, d’accordo. 

Ma con i tanti corridoi, le scalinate, il trenino, viene al contempo mostrato l’aspetto labirintico della politica. Perché, in questo senso, è da sottolineare come, in un sistema che si basa unicamente su due forze politiche (viene anche detto esplicitamente), in realtà poi il confronto avvenga tra esponenti di un’unica fazione, quella repubblicana. Anche questo è un tema tipicamente nelle corde del regista: se lo scontro fosse tra repubblicani e democratici sarebbe possibile darne una lettura manichea, buoni vs cattivi o viceversa. Ma nel momento in cui l’aspra disputa avviene tra i membri dello stesso partito, con Colby totalmente avverso a Leffingwell di cui Van Ackerman (George Grizzard) è invece sfegatato sostenitore, allora questo discorso viene meno. Colby e Van Ackerman si rendono protagonisti di azioni ignobili: se il primo, tipico conservatore, è un malefico rovistatore e burattinaio, il secondo, fanatico pacifista, fa addirittura peggio, arrivando a ricattare Anderson e a causarne il suicidio. Tornando all’ambientazione della storia, oltre ai luoghi della politica Preminger concede abbastanza spazio ai momenti di vita privata dei tantissimi protagonisti: ma, a parte Anderson, che comunque finisce tragicamente per i suoi trascorsi omosessuali, nessuno di loro sembra essere il rappresentante della più tipica e capillare istituzione americana, la famiglia tradizionale. E dire che sono tutti membri del partito conservatore: scapoli, vedovi, o indefiniti e indefinibili come Colby. Però la presenza femminile non è totalmente trascurata da Preminger: oltre alla moglie di Anderson, c’è una escort, che esce dalla camera del senatore Smith (Peter Lawford), scapolo impenitente, e c’è soprattutto l’amante del senatore Munson, vedovo. Dolly è interpretata dalla splendida Gene Tierney che torna sulle scene dopo un’assenza di sette anni per i problemi di salute legati alla disgrazia occorsa alla sua secondogenita. 

Fa un po’ tristezza vedere una diva come Gene relegata in una parte tanto secondaria, sebbene non si possa che essere grati a Preminger per averci riportato sullo schermo la sua Laura. C’è da dire che, a parte forse Laughton, (davvero bravissimo anche nel valorizzare i suoi spazi; purtroppo al suo ultimo film prima della morte) l’estrema coralità della storia riserva poco tempo procapite agli interpreti: anche Fonda, che figura come prim’attore, si deve accontentare di poca visibilità. In effetti un po’ stupisce, la scelta di Preminger, avendo Fonda nel ruolo che potrebbe essere il principale, preferisce, peraltro fedele alla sua idea di cinema, dare uno sguardo complessivo, ramificato in tutte le diramazioni che l’intrigo propone. Un intrigo che si risolve in niente: questo infatti il risultato del tentativo di nominare il segretario di stato. 

Ma, a parte le conseguenze gravi interne al racconto (come il suicidio di Anderson), Tempesta su Washington ci lascia in eredità un’interessante analisi sulle istituzioni americane e sull’America in genere. C’è, come detto, una positività d’intenti complessiva: anche le persone più riprovevoli, come Colby o Van Ackerman, sono animate da propositi positivi. Colby ha della ruggine personale con Leffingwell ma, nel finale, arriva pubblicamente ad ammetterlo, scontando, in un certo senso, penitenza; è vero, forse l’esperto senatore non capisce la positività e l’apertura mentale del candidato, ma è un vecchio conservatore del sud, a cui, in questo senso, si può concedere una certa dose di buona fede. Van Ackerman pecca di fanatismo e, ben più gravemente, di non farsi scrupoli, causando la morte di Anderson: ma il suo intento è pacifista e, quindi, apprezzabile, almeno in linea teorica. Per contrasto, i personaggi positivi, Leffingwell in testa, hanno tutti qualche neo; è nella superba poetica di Preminger, lo si è detto. Ma i passaggi migliori sono legati a due figure un po’ anonime, tratteggiate in modo volutamente più vago, indefinito: il vicepresidente (Lew Ayres) e il senatore Smith, il donnaiolo. Se il primo aveva apertamente manifestato il suo sentirsi inadeguato in caso che il presidente, gravemente malato, dovesse morire, il secondo era sembrato semplicemente allineato alle disposizioni di partito. 


Eppure, nel momento critico, quello della votazione finale, è proprio quest’ultimo che ha una crisi di coscienza e vota contro il candidato che aveva colpevolmente mentito alla commissione, facendo finire pari la votazione e mandando a monte i piani di Munson e del Presidente. Che, nel frattempo, muore. Il suo vice, che si era sentito impreparato fino ad un minuto prima, nel momento in cui è chiamato al suo dovere, prende il toro per le corna e non conferma, come sarebbe stato in suo potere, la nomina di Leffingwell. Eccolo, lo spirito americano secondo Preminger: persone mediocri o comunque non eccezionali che, alla bisogna, sanno fare il proprio dovere. Ed è grazie a loro, gente semplice e non eroi, campioni o supereroi, se gli Stati Uniti sono divenuti il paese leader a livello mondiale. E, in questo senso, pienamente da ammirare. Peccato che, col tempo, pare se lo siano dimenticati loro stessi e ora celebrino e, ahinoi, votino persone dallo smaccato egocentrismo. Come un qualunque paese europeo del primo ventesimo secolo. 


Gene Tierney


Betty Murray AKA Betty Johnson 


2 commenti:

  1. bella la metafora dei corridoi simboli del labirinto della politica :)
    per un attimo ho temuto un'apologia degli americani nella tua rece, per fortuna hai fatto quella puntualizzazione finale 🙂
    e, lo voglio proprio dire, abbasso i manichei! ;)

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  2. Beh, io rimango tutto sommato un simpatizzante dell'America. Poi ha certamente un suo lato oscuro (e forse più di uno e forse prevalente), ma nella mia formazione ha un ruolo che non posso (e non voglio) disconoscere. In ogni caso, basta cercare di dire le cose come stanno o, molto più probabilmente, come si pensa che stiano.

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