280_NON E' UN PAESE PER VECCHI (No country for old men); Stati Uniti, 2007; Regia di Joel e Ethan Cohen
Alfred Hitchcock, nella celebre intervista con Francois
Truffaut, aveva spiegato cos’è un
MacGuffin con l’esempio del pacco: un semplice pretesto narrativo.
Tarantino, in Pulp Fiction, lo aveva
usato nella sua valigetta, per mettere in moto il film che aveva cambiato il
corso alla Storia del cinema. Nel rispetto dell’esempio di Hitchcock, anche nel
film-culto del formidabile Quentin
non è dato sapere cosa ci sia nella valigetta, perché la cosa non ha alcuna
importanza, quello che conta è che la storia possa avere inizio. I fratelli
Cohen, in Non è un paese per vecchi,
ribaltano questo concetto: nella valigetta del loro film si sa cosa ci sia, un
mucchio di soldi, ed è un dettaglio importante, un dettaglio per cui rischiare
anche di morire. L’importanza del film dei fratelli di Minneapolis è proprio
nell’aver spostato un po’ più in là il confine di un genere, il crime-movie, che ha forse preso
l’eredità del western nell’esprimere
al meglio la società americana contemporanea (e, quindi, visto la sua
influenza, quella mondiale). Il denaro nella valigetta non può essere un
dettaglio: è il motore della vicenda proprio per la sua importanza, per
l’importanza che ha, nella nostra società, avere una montagna di soldi. Non è e
non può essere un dettaglio secondario: i Cohen spogliano così il cinema del
suo lato romantico, ancora presente e rilevante in Pulp Fiction ma, sorpresa (!), il film funziona ancora, e funziona
alla grande.
I dialoghi, e con essi la storia, perdono significato ma reggono lo stesso, anzi, sono anche in questo caso uno dei punti di forza dell’operazione. La vicenda, da un punto di
vista narrativo, è presto detta: Llewelyn Moss (Josh Brolin), durante una
battuta di caccia, si imbatte in un massacro, già avvenuto, e trova una
valigetta piena si soldi. La tentazione è forte e l’uomo decide di tenersi il
denaro. Non sono però contenti di questo gli uomini che quel denaro dovevano
recuperarlo, che scatenano sulle sue tracce alcuni criminali messicani contemporaneamente
al flemmatico ma inesorabile Chigurh (Javier Bardem), un pericoloso
psicopatico. A cercare di mettere un po’ d’ordine, assai controvoglia, si trova
coinvolto lo sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones).
A questo punto Chigurh
assurge quasi a protagonista del film (in realtà Bardem vincerà l’oscar come
attore non-protagonista) tanto rilevante è il suo ruolo: killer implacabile,
incarnazione della morte stessa, o forse del Destino, visto la sua abitudine di
giocare a testa o croce con la vita dei malcapitati che trova sul suo cammino. Ma
forse è proprio lui, il MacGuffin, il
dettaglio senza significato ma indispensabile per mettere in moto la vicenda.
Non è importante se tu sia colpevole o innocente: del resto Llewelyn ha
unicamente la colpa di impossessarsi di un mucchio di denaro sporco, ma finisce
per essere coinvolto, per essere scoperto, soltanto perché, in coscienza, non
si perdona di non aver dato l’acqua al bandito moribondo.
In fondo, è
cacciatore ma anche preda, è un personaggio opportunista, ma non merita
certamente di finire tra le mani di Chigurh. Ma, dicevamo, che tu sia colpevole
o innocente, non conta: quello che fa la differenza è che, quando il Destino
trova le tue tracce, che sia una serie di gocce di sangue, un segnale radio o
una strisciata nella polvere di un condotto dell’aria, non importa, niente lo
potrà fermare. E questo ancora in quell’oggi che, nel film, il southwest americano degli anni ’80 vuol
rappresentare: ad ascoltare le parole del vecchio sceriffo Ed Tom, i tempi andati del far west, violenti e selvaggi, sembrano quasi un’età dell’oro. La frase del titolo riprende il primo verso di Salpando verso Bisanzio di William
Butler Yeats, ma com’è che diceva uno dei nostri poeti? si sta come d’autunno, sugli alberi le foglie: e, in questo caso,
tutta la differenza del mondo la fa se la foglia cade dritta o a rovescio.
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