284_BOHEMIAN RHAPSODY; Stati Uniti, Regno Unito 2018; Regia di Bryan Singer.
Gli elementi certi di questo tanto atteso Bohemian Rhapsody li conoscevamo già: i
Queen sono stati una band fortissima, e la loro esibizione al Live Aid fu memorabile, tanto che Elton
John ebbe a dire: “oggi Freddy ha rubato
la scena a tutti”. E, in definitiva, è la sontuosa musica dei Queen a salvare un’operazione, Bohemian Rhapsody, assai tribolata; cosa di cui devono esserne stati consapevoli anche gli autori e i produttori (ha senso
parlare di regista, in queste
condizioni?) che forse per questo hanno deciso di chiudere il film con una
riproposizione quasi integrale dell’apparizione della band al concerto benefico
organizzato da Bob Geldolf. Il che, vista la travolgente prestazione dei
quattro ma soprattutto di un maiuscolo Freddy Mercury, significa andare sul
sicuro, e ottenere una luce positiva che si irradia su tutto quanto il racconto
filmico precedente, lasciando la bocca buona allo spettatore. Certo, la musica
è quella originale ma, va riconosciuto, soprattutto a Rami Malek, una capacità
di esibizione scenica notevole nell’interpretazione di Mercury; rimane comunque
il dubbio sul perché non guardarsi direttamente Queen Live Montreal & Live Aid, dal momento che la sensazione
che ci lascia il film, la sensazione migliore, è quella che si prova a guardare
un DVD dei migliori travolgenti
concerti della band. Perché la storia raccontata prima dell’esibizione al Live Aid, fa acqua da tutte le parti e
le tagline proposte dai distributori
non migliorano le cose: ‘L’unica cosa più
straordinaria della loro musica è la sua storia’ suona come il più
clamoroso degli autogol, ma peggio fa La
musica la conosci, la storia no, primo perché, nel caso si usi come
riferimento il film in questione, ci si farebbe un’idea completamente sballata
di come andarono le cose; e secondo, perché la storia, oltre che falsa, è un
pochetto bigotta e perbenista, ovvero l’opposto di quello che fu, in
definitiva, la vita di Freddy Mercury. Non che sia stato un messia rivoluzionario, il buon Freddy,
sia chiaro, ma pagò con la vita scelte che sapeva essere azzardate (ma non così
rischiose) e, sul piano artistico, è innegabile il suo (e della band) valido
contributo alla Storia della Musica.
Ma già il fatto che non si conosca per certa la paternità integrale dell’opera è un buon alibi per gli autori: dopo il ritiro di Sacha Baron Cohen per la
regia di Stephen Frears, il lavoro grosso pare sia stato fatto da Bryan Singer
e, in effetti, la storia a cui assistiamo potrebbe essere un film sui supereroi
come quelli dedicati agli X-Men dal
regista. Poi anche Singer se n’è andato, sostituito sul filo di lana da Dexter
Fletcher e, quindi, è difficile attribuire alla mano di qualcuno quello che poi
è rimasto sullo schermo. Ma, l’impostazione alla
comics, c’è tutta: il personaggio principale è uno che ama travestirsi e,
volendo ben vedere, porta anche una sorta di maschera che, se vista senza la sospensione dell’incredulità
indispensabile per guardare i film con mutanti e supereroi, è un poco ridicola.
La protesi dentaria che Rami Malek porta per assomigliare a Mercury è, infatti,
degna di una mascherata per carnevale; poi, l’attore, è indiscutibilmente
bravissimo nell’interpretazione mimetica e nel trasmettere (quasi) per intero
l’energia da animale da palco della
rockstar, ma la protesi rimane comunque eccessivamente posticcia. Il nostro (super)eroe ha i suoi super problemi
(Stan Lee docet) e ha pure un gruppo
di spalle guascone a dargli manforte.
Ma, soprattutto, ci sono i cattivoni:
dall’assistente Paul Prenter (Allen Leech), che seduce e porta sulla cattiva
strada il povero Freddy, al produttore Ray Foster (Mike Myers) personaggio del
tutto inventato che però può essere una sorta di traccia per capire la falsità
sua e, di conseguenza, dell’intero castello narrativo. Foster, ipotetico produttore
della EMI, nel film, rifiutando di produrre Bohemian
Rapsody come singolo, dice testualmente: ‘nessuno scuoterà la testa in auto ascoltando questa roba’ e,
naturalmente, tutti pensiamo allo stesso Myers nella celebre scena di Fusi di testa come istantanea che valga come smentita di queste parole. Passaggio
divertente, non c’è che dire, ed esaustivo sulla questione.
Per cui, il breve
stacco che, in seguito, interrompe addirittura la solenne esibizione al Live Aid del gruppo, per mostrare Foster
che rosica, in un film normale sarebbe una caduta di stile e, soprattutto, sarebbe
superflua ma, nella pantomima cartoonesca
imbastita da Singer e company,
possiamo anche prenderla come uno sberleffo accettabile. Ma superfluo, si
diceva; come potrebbe ambire ad essere il loro film, sennonché, in definitiva rischia
di essere addirittura dannoso. L’attenzione con cui non si mostra nulla di
realmente sconveniente negli incontri a Monaco, (ci vuole occhio attento per
scorgere un po’ di cocaina), i festini di casa Mercury che somigliano a
innocenti party carnevaleschi, la responsabilità morale di quanto successo additata
integralmente a Prenter, la visita da perfetto figliol prodigo mano-nella-mano con il nuovo compagno
alla casa dei genitori… tutto quanto ciò, non solo suona posticcio, ma quasi
offensivo per le scelte di vita di Mercury. Scelte probabilmente audaci e forse
discutibili, ma sicuramente riscattate, in ottica morale e personale, dal
pagamento in prima persona di uno scotto tremendo, come morire a soli 45 anni.
Sapendo che alle spalle della produzione di tutto quanto ci siano, in qualità
di consulenti, addirittura Brian May (nel film ben impersonato da Gwilym Lee) e
Roger Taylor (sullo schermo, un altrettanto credibile Ben Hardy), lascia un
poco perplessi.
Ma, più che altro, sinceramente tristi.
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