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mercoledì 9 gennaio 2019

BOHEMIAN RHAPSODY

284_BOHEMIAN RHAPSODYStati Uniti, Regno Unito 2018;  Regia di Bryan Singer.

Gli elementi certi di questo tanto atteso Bohemian Rhapsody li conoscevamo già: i Queen sono stati una band fortissima, e la loro esibizione al Live Aid fu memorabile, tanto che Elton John ebbe a dire: “oggi Freddy ha rubato la scena a tutti”. E, in definitiva, è la sontuosa musica dei Queen a salvare un’operazione, Bohemian Rhapsody, assai tribolata; cosa di cui devono esserne stati consapevoli anche gli autori e i produttori (ha senso parlare di regista, in queste condizioni?) che forse per questo hanno deciso di chiudere il film con una riproposizione quasi integrale dell’apparizione della band al concerto benefico organizzato da Bob Geldolf. Il che, vista la travolgente prestazione dei quattro ma soprattutto di un maiuscolo Freddy Mercury, significa andare sul sicuro, e ottenere una luce positiva che si irradia su tutto quanto il racconto filmico precedente, lasciando la bocca buona allo spettatore. Certo, la musica è quella originale ma, va riconosciuto, soprattutto a Rami Malek, una capacità di esibizione scenica notevole nell’interpretazione di Mercury; rimane comunque il dubbio sul perché non guardarsi direttamente Queen Live Montreal & Live Aid, dal momento che la sensazione che ci lascia il film, la sensazione migliore, è quella che si prova a guardare un DVD dei migliori travolgenti concerti della band. Perché la storia raccontata prima dell’esibizione al Live Aid, fa acqua da tutte le parti e le tagline proposte dai distributori non migliorano le cose: ‘L’unica cosa più straordinaria della loro musica è la sua storia’ suona come il più clamoroso degli autogol, ma peggio fa La musica la conosci, la storia no, primo perché, nel caso si usi come riferimento il film in questione, ci si farebbe un’idea completamente sballata di come andarono le cose; e secondo, perché la storia, oltre che falsa, è un pochetto bigotta e perbenista, ovvero l’opposto di quello che fu, in definitiva, la vita di Freddy Mercury. Non che sia stato un messia rivoluzionario, il buon Freddy, sia chiaro, ma pagò con la vita scelte che sapeva essere azzardate (ma non così rischiose) e, sul piano artistico, è innegabile il suo (e della band) valido contributo alla Storia della Musica

Ma già il fatto che non si conosca per certa la paternità integrale dell’opera è un buon alibi per gli autori: dopo il ritiro di Sacha Baron Cohen per la regia di Stephen Frears, il lavoro grosso pare sia stato fatto da Bryan Singer e, in effetti, la storia a cui assistiamo potrebbe essere un film sui supereroi come quelli dedicati agli X-Men dal regista. Poi anche Singer se n’è andato, sostituito sul filo di lana da Dexter Fletcher e, quindi, è difficile attribuire alla mano di qualcuno quello che poi è rimasto sullo schermo. Ma, l’impostazione alla comics, c’è tutta: il personaggio principale è uno che ama travestirsi e, volendo ben vedere, porta anche una sorta di maschera che, se vista senza la sospensione dell’incredulità indispensabile per guardare i film con mutanti e supereroi, è un poco ridicola. 

La protesi dentaria che Rami Malek porta per assomigliare a Mercury è, infatti, degna di una mascherata per carnevale; poi, l’attore, è indiscutibilmente bravissimo nell’interpretazione mimetica e nel trasmettere (quasi) per intero l’energia da animale da palco della rockstar, ma la protesi rimane comunque eccessivamente posticcia. Il nostro (super)eroe ha i suoi super problemi (Stan Lee docet) e ha pure un gruppo di spalle guascone a dargli manforte. Ma, soprattutto, ci sono i cattivoni: dall’assistente Paul Prenter (Allen Leech), che seduce e porta sulla cattiva strada il povero Freddy, al produttore Ray Foster (Mike Myers) personaggio del tutto inventato che però può essere una sorta di traccia per capire la falsità sua e, di conseguenza, dell’intero castello narrativo. Foster, ipotetico produttore della EMI, nel film, rifiutando di produrre Bohemian Rapsody come singolo, dice testualmente: ‘nessuno scuoterà la testa in auto ascoltando questa roba’ e, naturalmente, tutti pensiamo allo stesso Myers nella celebre scena di Fusi di testa come istantanea che valga come smentita di queste parole. Passaggio divertente, non c’è che dire, ed esaustivo sulla questione. 
Per cui, il breve stacco che, in seguito, interrompe addirittura la solenne esibizione al Live Aid del gruppo, per mostrare Foster che rosica, in un film normale sarebbe una caduta di stile e, soprattutto, sarebbe superflua ma, nella pantomima cartoonesca imbastita da Singer e company, possiamo anche prenderla come uno sberleffo accettabile. Ma superfluo, si diceva; come potrebbe ambire ad essere il loro film, sennonché, in definitiva rischia di essere addirittura dannoso. L’attenzione con cui non si mostra nulla di realmente sconveniente negli incontri a Monaco, (ci vuole occhio attento per scorgere un po’ di cocaina), i festini di casa Mercury che somigliano a innocenti party carnevaleschi, la responsabilità morale di quanto successo additata integralmente a Prenter, la visita da perfetto figliol prodigo mano-nella-mano con il nuovo compagno alla casa dei genitori… tutto quanto ciò, non solo suona posticcio, ma quasi offensivo per le scelte di vita di Mercury. Scelte probabilmente audaci e forse discutibili, ma sicuramente riscattate, in ottica morale e personale, dal pagamento in prima persona di uno scotto tremendo, come morire a soli 45 anni. Sapendo che alle spalle della produzione di tutto quanto ci siano, in qualità di consulenti, addirittura Brian May (nel film ben impersonato da Gwilym Lee) e Roger Taylor (sullo schermo, un altrettanto credibile Ben Hardy), lascia un poco perplessi. 
Ma, più che altro, sinceramente tristi. 




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