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giovedì 3 gennaio 2019

CHI L'HA VISTA MORIRE?

281_CHI L'HA VISTA MORIRE? (Who saw her die?)Italia, Germania Ovest, 1972;  Regia di Aldo Lado.

Terrificante esempio di come il thriller all’italiana dei primi anni settanta sconfinasse spesso nel puro horror, Chi l’ha vista morire? è certamente uno dei migliori esempi del genere cinematografico nostrano forse più interessante di quel periodo. La ricetta del regista Aldo Lado non si discosta più di tanto dalle peculiarità del filone, cristallizzate in modo perfetto nei primi anni del decennio da opere come l’argentiana L’uccello dalle piume di cristallo. Anche qui, la coerenza o la plausibilità dell’intreccio narrativo sono secondarie, ma Lado è molto bravo perché sfuma, in modo opportuno, i contorni dell’indagine deduttiva, che in quelli che sono universalmente noti e riconosciuti come film gialli, è sempre una pericolosa spada di Damocle. Il regista scongiura infatti eventuali osservazioni e obiezioni dello spettatore troppo pignolo, annebbiandole in una opprimente atmosfera che trasforma Venezia, la città degli innamorati, in un luogo da incubo. Ma la bravura di Lado non è naturalmente solo legata alla resa sullo schermo della claustrofobica ambientazione veneziana, seppure davvero notevole; in qualità di thriller, nel film i momenti in cui la tensione sale al culmine sono numerosissimi e disseminati su tutta la lunghezza della pellicola, offrendo ben poche pause per tirare un po’ il fiato. Oltre all’uso della soggettiva particolare e curiosa, che ci mostra lo sguardo dell’assassino attraverso una veletta di pizzo, Lado dimostra un’ottima abilità nell’uso dei piani di ripresa, come nella scena finale dentro la chiesa, dove sullo sfondo intuiamo, prima che compaia sullo schermo, l’arrivo del maniaco, con un effetto pelle d’oca amplificato. 
Efficace anche l’uso del montaggio alternato, uno stratagemma sempre valido per aumentare la suspense. Ovviamente, come da prassi del genere, nella riuscita delle singole scene e dell’intero lungometraggio, è cruciale la colonna sonora, opera di Ennio Morricone, che qui si supera: la nenia infantile che si ripete è angosciante e macabra (e da cui deriva il titolo del film), e la cacofonica ma efficacissima musica che accompagna le azioni del maniaco è terribilmente paurosa già di per sé stessa. A questo va aggiunto lo sgomento per il tema del racconto che vede le uccisioni di povere bambine accomunate dalla caratteristica di avere i capelli rossi; sebbene l’argomento pedofilia rimanga solo sfiorato. 
Il film è quindi un efficace prodotto di genere, e perciò prevalentemente di puro svago, per quanto il cinema dell’orrore, a cui questo Chi l’ha vista morire? può benissimo essere ascritto almeno in termini di paura provocata, una sua funzione fisiologica ce l’ha sempre. E’ un dato di fatto che, all’interno dell’industria cinematografica, il cinema horror storicamente abbia momenti di grande produzione e questo è probabilmente legato alla necessità collettiva, colta poi dall’artista, di manifestare e sfogare sentimenti quotidianamente diffusi quali angoscia e paura, che richiedono un effetto catartico a cui il cinema stesso offre il suo servizio. 
E la produzione di film di questo genere aumenta proprio quando la società affronta collettivamente momenti delicati, che rendono opportune questo tipo di terapie cinematografiche. I primi anni ’70, in Italia, concretizzavano le tensioni del ’68 e preparavano l’esplosione degli anni di piombo, oltre alla messa in discussione di un’intera idea di società, quella italiana, da sempre basata sulle tradizionali istituzioni del paese: famiglia, religione, arte e politica. 
E se guardiamo Chi l’ha vista morire? noteremo che la famiglia principale della storia è divisa: il padre Franco (un convincente George Lazenby) vive a Venezia, e la madre Elizabeth (la meravigliosa Anita Strindberg) ad Amsterdam, ma anche negli altri ambiti non c’è molto da stare allegri. Se le forze dell’ordine, in rappresentanza delle istituzioni civili e quindi politiche, ci fanno una figura piuttosto misera, in campo artistico, Serafian (il solito grande Adolfo Celi) è tutto tranne che una brava persona, e anche i suoi collaboratori non sembrano molto meglio. 
Peggio va alla religione che, in un certo senso, nasconde l’identità del colpevole e, nel finale, quando Elizabeth cerca rifugio in chiesa, si va a ficcare piuttosto nella tana del lupo. Volendo, c’è anche una nota non troppo lusinghiera per l’ambiente infantile, mostrato con crudezza da Lado, con le tipiche piccole crudeltà subite dalla tenera Roberta (Nicoletta Elmi) derisa e derubata dai bulletti suoi coetanei. Nel finale, Elizabeth e Franco si allontano di nuovo insieme, in motoscafo; dopo un intero angosciante racconto senza speranza, possiamo fidarci di questo lieto fine che più che altro sembra una fuga? 
Mah... considerato che il cattivo è stato punito dal fuoco e che l’acqua, nel film, sembra aver perso il suo potere simbolicamente positivo (è lì che nacque, infatti, la vita sulla terra), si potrebbero piuttosto ipotizzare tempi cupi. Perché, curiosamente, l’elemento vitale è onnipresente nel film, ma non in un’ottica positiva: lui vive a Venezia, lei a Amsterdam, due città famose per i canali e che, nella storia raccontata, separano la vita famigliare; e, volendo, c’è anche il regista del film, Aldo Lado, nato a Fiume, altra città i cui canali d’acqua sono essenziali per la vita cittadina, ma che ci ricorda la separazione dall’Italia. E, di Venezia, in un dialogo, i personaggi parlano come di una città che sta morendo sommersa dalle acque. Tornando alla trama di Chi l’ha vista morire?, già la prima bambina muore e viene sepolta sotto la neve, ovvero acqua gelata; e poi ci sono le altre due bambine trovate morte nei canali della città lagunare; e c’è il segno zodiacale dell’acquario regalato da Serafian a Roberta che non porterà certo fortuna alla piccola. Se l’acqua, anche al cinema è, abitualmente, simbolo positivo di vita, il film ne rovescia la valenza, e qualche dubbio sulle fortune degli anni a venire, guardando Chi l’ha vista morire?, certo poteva venire. Che il resto dei settanta avrebbe confermato.  

  
Nicoletta Elmi



Dominque Boschero


Anita Strindberg






1 commento:

  1. questi trucchetti usati dai registi per confondere le cose ed evitare problemi narrativi mi hanno sempre affascinato :-)

    PS... il segno dell'acquario richiama l'acqua nel nome ma è in realtà un segno d'aria, misteri dell'astrologia...

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