293_TESTIMONE D'ACCUSA (Witness for the prosecution); Stati Uniti 1957; Regia di Billy Wilder.
A proposito di Testimone
d’accusa, giallo giudiziario un po’ atipico nella carriera di Billy Wilder,
possiamo riportare alcune citazioni per inquadrare meglio la pellicola.
Innanzitutto, precisando che il film è tratto dall’omonima opera letteraria e
teatrale di Agatha Christie, va ricordato che la famosissima scrittrice inglese
definì Testimone d’accusa, in
assoluto, la miglior trasposizione cinematografica di uno dei suoi lavori.
Trasposizioni che furono numerose, detto per inciso. L’interesse per il genere
giallo da parte di Wilder è presto detto, basta prenderlo dalle sue parole: “Ho voluto fare un film a là Hitchcock, poi
mi è venuto noia. In realtà, ogni volta che mi sento a terra faccio una
commedia, quando invece sono in un momento buono preferisco un film drammatico
o un noir, così poi mi annoio e posso tornare alla commedia.” Da queste parole, per quanto sempre ironiche
com’è tipicamente nello stile del geniale autore, si può comunque intuire che
ciò che interessa davvero Wilder sono i film più leggeri; i generi drammatici incontrano meno il suo gusto, ma
questo non vuol dire che i risultati siano poi negativi, anzi. Del resto la
bontà dello stesso Testimone d’accusa,
indiscutibile, lo conferma. Un ulteriore aspetto interessante è che il regista
di origine austriaca tiri in ballo Hitchcock, per altro un po’ a sproposito, in
quanto Testimone d’accusa non è poi
un film così hitchcockiano, e del
resto in seguito lo stesso Wilder lo riconosce quando affronta più seriamente
l’argomento: “A pensarci bene non è poi [una
storia] così hitcockiana. Lui ci avrebbe
infilato qualche trucco, come al solito. Del resto era un mago, da quel punto
di vista. Ma nel film c’è un fondo di verità che non credo lo avrebbe
interessato più di tanto.”
C’è del rispetto, ma anche una netta presa di
distanza, dal lavoro del genio inglese; il quale i trucchi li usava sempre con una precisa e valida finalità, cosa che
Wilder si è scordato di dire. Punzecchiature, d’accordo; del resto pare che
anche Hitch avesse contribuito alla
querelle in merito a Testimone d’accusa:
“spesso ho avuto modo di incontrare molti
ammiratori che si complimentavano con me per ‘Testimone d’accusa’. Quando l’ho
detto a Wilder, mi ha risposto che molti ammiratori si complimentavano con lui
per ‘Il caso Paradine’…” L’ironia
non mancava nemmeno a Hitchcock, ma viene difficile pensare che qualcuno possa
aver preso Il caso Paradine per un
film di Wilder; piuttosto il regista inglese vuole forse marcare la distanza
tra la sua poetica e Testimone d’accusa
(il ragionamento è: Testimone d’accusa
è simile al lavoro di Hitchcock quanto Il
caso Paradine è simile ai film di Wilder), mettendo al contempo in rilievo
i debiti del film di Wilder nei
confronti del suo (la presenza scenica di Charles Laughton, la figura equivoca
e altera della protagonista femminile in tribunale).
Inoltre, l’arguzia sottile
di Hitch, si può cogliere anche nel vantaggio che ne ricava personalmente
dallo scambio proposto dal suo
ricordo: cede infatti a Wilder un film
non del tutto riuscito come Il caso
Paradine, per averne in cambio uno formalmente impeccabile come Testimone d’accusa. Perché, come già
evidenziato da Agatha Christie, quello di Wilder è un film di raro equilibrio: una
storia ben congegnata con colpo e controcolpo
di scena nel finale, su cui si innestano in modo sontuoso le interpretazioni
d’attore. La parte del leone spetta a Charles Laughton, nei panni del
formidabile avvocato Robarts, uomo di acume e intelligenza superiori. Eppure,
la ferrea capacità deduttiva, la superba oratoria, alla fine cedono il passo al
personaggio nel film contrapposto: Christine Helm, interpretata da una algida
Marlene Dietrich.
Il monocolo può
essere interpretato come una sorta di piccolo indizio per capire la chiave di
lettura del film: proiettando luce in faccia all’interrogato, funge da schermo
a Robarts, che non può essere visto in quel frangente dallo stesso
interlocutore, e ne risulta così mascherato.
Perché anche Robarts, che è persona professionalmente integerrima, ricorre a
inganni e trucchi: scambia la bevanda al cacao con il brandy, fuma di nascosto,
insomma finge, si maschera da
paziente modello, ben disposto alla terapia di recupero dopo l’attacco
cardiaco, ma invece cede ai propri vizi. E così fa anche la Helm , che recita la parte di
donna dura ma in realtà è romanticamente innamorata del marito Leonard.
E
Leonard? Leonard è il personaggio che, in un mondo di menzogne, è vincente: lui
non è intelligente o valido, è piuttosto scaltro, opportunista, approfittatore e,
in un mondo dove tutti, anche gli elementi più dotati ricorrono all’inganno,
risulta imbattibile. Lui non si cura di apparire in difficoltà di fronte alla
prova del monocolo, anzi: usa le sue incertezze per impietosire, per avere
commiserazione; e quella è la vera arma vincente. Il finale vede così Leonard
ingiustamente assolto dalla sacrosanta accusa di omicidio: trionfante,
facendosi beffe da una parte della giustizia e di
Robarts e dall'altra dell’amore e della moglie
Christine, che già tradiva e progettava di abbandonare, può rivelare la vera
propria natura. Tra l’altro, è curioso come Leonard, per adescare la propria
vittima, la porti in un cinema dove si sta proiettando Jess il bandito di Henry King, nel quale Jesse James era
interpretato dallo stesso Tyrone Power. Un po’ a ribadire che il successo
arrida a chi, come gli attori, sia bravo a recitare e quindi a mentire. Il film
dovrebbe finire così, espletando la morale della favola, ovvero a questo mondo
l’opportunismo è il valore più importante. Ma se già nella rappresentazione
teatrale, adattata dalla stessa Agatha Christie, venne aggiunto un contro finale, (forse per la difficoltà
dell’autrice a digerire l’impunità del colpevole) figuriamoci se, nel film di
Wilder, la divina Marlene Dietrich potesse finire cornuta e mazziata da un Tyorne Power qualsiasi. Il finale non
cambia la sostanza, ma mette almeno qualche cosa al suo posto: Marlene Dietrich era Marlene Dietrich, e
aveva lavorato sodo per diventarlo, come disse proprio Billy Wilder, e
tirarle un tiro mancino poteva costare assai. Una coltellata letale, ad
esempio.
Marlene Dietrich
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