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domenica 27 gennaio 2019

TESTIMONE D'ACCUSA

293_TESTIMONE D'ACCUSA (Witness for the prosecution)Stati Uniti 1957;  Regia di Billy Wilder.

A proposito di Testimone d’accusa, giallo giudiziario un po’ atipico nella carriera di Billy Wilder, possiamo riportare alcune citazioni per inquadrare meglio la pellicola. Innanzitutto, precisando che il film è tratto dall’omonima opera letteraria e teatrale di Agatha Christie, va ricordato che la famosissima scrittrice inglese definì Testimone d’accusa, in assoluto, la miglior trasposizione cinematografica di uno dei suoi lavori. Trasposizioni che furono numerose, detto per inciso. L’interesse per il genere giallo da parte di Wilder è presto detto, basta prenderlo dalle sue parole: “Ho voluto fare un film a là Hitchcock, poi mi è venuto noia. In realtà, ogni volta che mi sento a terra faccio una commedia, quando invece sono in un momento buono preferisco un film drammatico o un noir, così poi mi annoio e posso tornare alla commedia.”  Da queste parole, per quanto sempre ironiche com’è tipicamente nello stile del geniale autore, si può comunque intuire che ciò che interessa davvero Wilder sono i film più leggeri; i generi drammatici incontrano meno il suo gusto, ma questo non vuol dire che i risultati siano poi negativi, anzi. Del resto la bontà dello stesso Testimone d’accusa, indiscutibile, lo conferma. Un ulteriore aspetto interessante è che il regista di origine austriaca tiri in ballo Hitchcock, per altro un po’ a sproposito, in quanto Testimone d’accusa non è poi un film così hitchcockiano, e del resto in seguito lo stesso Wilder lo riconosce quando affronta più seriamente l’argomento: “A pensarci bene non è poi [una storia] così hitcockiana. Lui ci avrebbe infilato qualche trucco, come al solito. Del resto era un mago, da quel punto di vista. Ma nel film c’è un fondo di verità che non credo lo avrebbe interessato più di tanto.” 
C’è del rispetto, ma anche una netta presa di distanza, dal lavoro del genio inglese; il quale i trucchi li usava sempre con una precisa e valida finalità, cosa che Wilder si è scordato di dire. Punzecchiature, d’accordo; del resto pare che anche Hitch avesse contribuito alla querelle in merito a Testimone d’accusa: “spesso ho avuto modo di incontrare molti ammiratori che si complimentavano con me per ‘Testimone d’accusa’. Quando l’ho detto a Wilder, mi ha risposto che molti ammiratori si complimentavano con lui per ‘Il caso Paradine’…”  L’ironia non mancava nemmeno a Hitchcock, ma viene difficile pensare che qualcuno possa aver preso Il caso Paradine per un film di Wilder; piuttosto il regista inglese vuole forse marcare la distanza tra la sua poetica e Testimone d’accusa (il ragionamento è: Testimone d’accusa è simile al lavoro di Hitchcock quanto Il caso Paradine è simile ai film di Wilder), mettendo al contempo in rilievo i debiti del film di Wilder nei confronti del suo (la presenza scenica di Charles Laughton, la figura equivoca e altera della protagonista femminile in tribunale). 

Inoltre, l’arguzia sottile di Hitch, si può cogliere anche nel vantaggio che ne ricava personalmente dallo scambio proposto dal suo ricordo: cede infatti a Wilder un film non del tutto riuscito come Il caso Paradine, per averne in cambio uno formalmente impeccabile come Testimone d’accusa. Perché, come già evidenziato da Agatha Christie, quello di Wilder è un film di raro equilibrio: una storia ben congegnata con colpo e controcolpo di scena nel finale, su cui si innestano in modo sontuoso le interpretazioni d’attore. La parte del leone spetta a Charles Laughton, nei panni del formidabile avvocato Robarts, uomo di acume e intelligenza superiori. Eppure, la ferrea capacità deduttiva, la superba oratoria, alla fine cedono il passo al personaggio nel film contrapposto: Christine Helm, interpretata da una algida Marlene Dietrich. 
La Dietrich è sempre la Dietrich, ma questo film è un’ulteriore prova di bravura dell’attrice tedesca, capace di apparire fredda e distaccata, lasciando però intravvedere barlumi di sentimento sotto la dura scorza (per quanto apprezzabile) esteriore. Ed è uno smacco, per l’ego maschile, vedere il proprio campione, il personaggio più dotato di intelligenza e carisma, venire superato sul proprio terreno. E pensare che durante il processo, Robarts sembrava sicuro del fatto suo, e giocava distaccato con le pillole per il cuore mentre ingannava la sua infermiera bevendo brandy (messo al posto della cioccolata) dal thermos. Eppure, avrebbe dovuto capirlo già dalla prova del monocolo che la Helm era un osso troppo duro anche per lui. Il monocolo, usato da Robbarts per riflettere la luce in faccia all’interlocutore, simulava una sorta di terzo grado nascosto ma, a differenza di Leonard Vole (il terzo importante personaggio del film, interpretato da Tyrone Power) la donna non si era fatta soggiogare dalla situazione. 
Il monocolo può essere interpretato come una sorta di piccolo indizio per capire la chiave di lettura del film: proiettando luce in faccia all’interrogato, funge da schermo a Robarts, che non può essere visto in quel frangente dallo stesso interlocutore, e ne risulta così mascherato. Perché anche Robarts, che è persona professionalmente integerrima, ricorre a inganni e trucchi: scambia la bevanda al cacao con il brandy, fuma di nascosto, insomma finge, si maschera da paziente modello, ben disposto alla terapia di recupero dopo l’attacco cardiaco, ma invece cede ai propri vizi. E così fa anche la Helm, che recita la parte di donna dura ma in realtà è romanticamente innamorata del marito Leonard. 
E Leonard? Leonard è il personaggio che, in un mondo di menzogne, è vincente: lui non è intelligente o valido, è piuttosto scaltro, opportunista, approfittatore e, in un mondo dove tutti, anche gli elementi più dotati ricorrono all’inganno, risulta imbattibile. Lui non si cura di apparire in difficoltà di fronte alla prova del monocolo, anzi: usa le sue incertezze per impietosire, per avere commiserazione; e quella è la vera arma vincente. Il finale vede così Leonard ingiustamente assolto dalla sacrosanta accusa di omicidio: trionfante, facendosi beffe da una parte della giustizia e di Robarts e dall'altra dell’amore e della moglie Christine, che già tradiva e progettava di abbandonare, può rivelare la vera propria natura. Tra l’altro, è curioso come Leonard, per adescare la propria vittima, la porti in un cinema dove si sta proiettando Jess il bandito di Henry King, nel quale Jesse James era interpretato dallo stesso Tyrone Power. Un po’ a ribadire che il successo arrida a chi, come gli attori, sia bravo a recitare e quindi a mentire. Il film dovrebbe finire così, espletando la morale della favola, ovvero a questo mondo l’opportunismo è il valore più importante. Ma se già nella rappresentazione teatrale, adattata dalla stessa Agatha Christie, venne aggiunto un contro finale, (forse per la difficoltà dell’autrice a digerire l’impunità del colpevole) figuriamoci se, nel film di Wilder, la divina Marlene Dietrich potesse finire cornuta e mazziata da un Tyorne Power qualsiasi. Il finale non cambia la sostanza, ma mette almeno qualche cosa al suo posto: Marlene Dietrich era Marlene Dietrich, e aveva lavorato sodo per diventarlo, come disse proprio Billy Wilder, e tirarle un tiro mancino poteva costare assai. Una coltellata letale, ad esempio.  



Marlene Dietrich










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