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lunedì 7 gennaio 2019

LOVE STORY

283_LOVE STORYStati Uniti 1970;  Regia di Arthur Hiller.

Da un punto di vista sentimentale, Love story, asfalta, già dal titolo, qualunque tentativo di opporsi al romanticismo (pur se in salsa sessantottina) che trabocca dallo schermo. Gli autori sanno il fatto loro e giocano tutti gli assi del mazzo: lui, ricco e nobile (nel senso americano del temine), lei intelligente, non certo facoltosa ma orgogliosa. Tutte e due belli ma, mentre lui è un fustacchione (Ryan O’Neal nei panni di Oliver Barrett IV), lei è semplicemente carina (Ali MacGraw in quelli sempre ordinari di Jennifer Cavalleri). La cosa, che potrebbe essere opinabile come tutte le affermazioni in materia estetica, è resa esplicita, onde evitare equivoci: ‘ti ho scelto perché hai un bel corpo’, dice Jenny a Oliver; e poi ‘diciamo che sono discreta’ è ancora lei a parlare. Perché un film che si rivolge ad un pubblico femminile deve stuzzicare gli appetiti sessuali delle spettatrici (e quindi il protagonista aitante) ma non deve mortificare le stesse con un paragone difficile da sopportare nel processo di immedesimazione (e quindi la discrezione estetica della MacGraw). Insomma, la favola di Cenerentola ma attualizzata agli anni dopo il ‘68, per cui, anche se Oliver ci mette un buon tre quarti d’ora di film, appare chiaro sin da subito che Jenny è una petulante rompiscatole che chiunque sarebbe lieto di evitare come compagna. Ma tant’è, il personaggio di Jenny non è certo messo nella storia per accalappiare gli interessi maschili. Tecnicamente l’opera è notevole: bellissima la fotografia, armoniosi i movimenti di macchina; in particolar modo i lenti carrelli in avanti o indietro, coinvolgono e rendono partecipe anche quel raro spettatore che non si sia lasciato abbindolare dal romanticismo della storia d’amore. 
E che dire della celeberrima colonna sonora di Francis Lai? Il motivo trainante (si fa per dire) è struggente, e forse è utilizzato in modo anche eccessivo. Ma, del resto, è eccessiva anche la storia, con la svolta drammatica e la leucemia fulminante che porta via la povera Jenny all’amato Oliver. Qui, al sentimentalismo della storia d’amore, gli autori sommano il dispiacere per la disgrazia occorsa alla ragazza, imprigionando lo spettatore in una gabbia emotiva [cit. Walter Chiari], che non lascia alcuno scampo nemmeno al più cinico degli individui.

Ma va detto che le intenzioni degli autori sono manifeste, in questo senso. E, ancora una volta, le comunicano attraverso le parole della stessa ragazza: ‘bisogna giocare duro’, come faceva Oliver nel gioco dell’Hockey su ghiaccio. In effetti, Love story è una storia pesantissima, in questo senso.
Ma coerente perché questo, il dover giocare duro, è, in sostanza, la sintesi della faccenda: a fronte di un rifiuto alla società (la religione, Dio, la ricchezza ereditabile, la ‘nobiltà borghese’ del casato famigliare di lui, le istituzioni aggirate con il matrimonio fai da te) i giovani dei nascenti anni settanta devono essere pronti ad affrontare la vita da soli, senza alcun sostegno. Pronti a ricevere morte (di Jenny) quando si ricerca la vita (il bambino voluto dalla coppia): adesso, il mondo, è un posto freddo, soprattutto se lo si affronta da soli. Come Oliver, che si avvia a piedi nelle strade gelate di una freddissima New York.
‘Amore’ significa non dover mai dire ‘mi dispiace’ è la frase per eccellenza, anch’essa celeberrima, di Love Story. Ad occhio e croce, guardando Oliver nel finale, sconsolatamente seduto sui gradini ghiacciati, non un proposito semplicissimo.    


Ali MacGraw



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