283_LOVE STORY; Stati Uniti 1970; Regia di Arthur Hiller.
Da un punto di vista sentimentale, Love story, asfalta, già dal titolo, qualunque tentativo di opporsi
al romanticismo (pur se in salsa sessantottina) che trabocca dallo schermo. Gli
autori sanno il fatto loro e giocano tutti gli assi del mazzo: lui, ricco e nobile (nel senso americano del temine),
lei intelligente, non certo facoltosa ma orgogliosa. Tutte e due belli ma,
mentre lui è un fustacchione (Ryan
O’Neal nei panni di Oliver Barrett IV), lei è semplicemente carina (Ali MacGraw in quelli sempre ordinari
di Jennifer Cavalleri). La cosa, che potrebbe essere opinabile come tutte le
affermazioni in materia estetica, è resa esplicita, onde evitare equivoci: ‘ti ho scelto perché hai un bel corpo’,
dice Jenny a Oliver; e poi ‘diciamo che sono discreta’ è ancora lei
a parlare. Perché un film che si rivolge ad un pubblico femminile deve
stuzzicare gli appetiti sessuali delle spettatrici (e quindi il protagonista aitante) ma non deve mortificare le stesse con un paragone difficile da sopportare nel
processo di immedesimazione (e quindi la discrezione
estetica della MacGraw). Insomma, la favola di Cenerentola ma attualizzata agli
anni dopo il ‘68, per cui, anche se Oliver ci mette un buon tre quarti d’ora di
film, appare chiaro sin da subito che Jenny è una petulante rompiscatole che
chiunque sarebbe lieto di evitare come compagna. Ma tant’è, il personaggio di
Jenny non è certo messo nella storia per accalappiare gli interessi maschili.
Tecnicamente l’opera è notevole: bellissima la fotografia, armoniosi i
movimenti di macchina; in particolar modo i lenti carrelli in avanti o
indietro, coinvolgono e rendono partecipe anche quel raro spettatore che non si
sia lasciato abbindolare dal romanticismo della storia d’amore.
E che dire
della celeberrima colonna sonora di Francis Lai? Il motivo trainante (si fa per
dire) è struggente, e forse è utilizzato in modo anche eccessivo. Ma, del
resto, è eccessiva anche la storia, con la svolta drammatica e la leucemia
fulminante che porta via la povera Jenny all’amato Oliver. Qui, al
sentimentalismo della storia d’amore, gli autori sommano il dispiacere per la
disgrazia occorsa alla ragazza, imprigionando lo spettatore in una gabbia emotiva [cit. Walter Chiari], che
non lascia alcuno scampo nemmeno al più cinico degli individui.
Ma va detto che le intenzioni degli autori sono manifeste,
in questo senso. E, ancora una volta, le comunicano attraverso le parole della
stessa ragazza: ‘bisogna giocare duro’,
come faceva Oliver nel gioco dell’Hockey su ghiaccio. In effetti, Love story è una storia pesantissima, in questo senso.
Ma coerente perché questo, il dover giocare duro, è, in sostanza, la sintesi della faccenda: a
fronte di un rifiuto alla società (la religione, Dio, la ricchezza ereditabile,
la ‘nobiltà borghese’ del casato
famigliare di lui, le istituzioni aggirate con il matrimonio fai da te) i giovani dei nascenti anni
settanta devono essere pronti ad affrontare la vita da soli, senza alcun
sostegno. Pronti a ricevere morte (di Jenny) quando si ricerca la vita (il
bambino voluto dalla coppia): adesso, il mondo, è un posto freddo, soprattutto se
lo si affronta da soli. Come Oliver, che si avvia a piedi nelle strade gelate
di una freddissima New York.
‘Amore’ significa non
dover mai dire ‘mi dispiace’ è la frase per eccellenza, anch’essa
celeberrima, di Love Story. Ad occhio
e croce, guardando Oliver nel finale, sconsolatamente seduto sui gradini
ghiacciati, non un proposito semplicissimo.
Ali MacGraw
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