239_UNA LUCERTOLA CON LA PELLE DI DONNA Italia, Francia, Spagna 1971; Regia di Lucio Fulci.
A volte si legge che il titolo sia una delle cose meno
riuscite di questo film e spesso traspare una certa insofferenza per l’evidente
debito all’argentiana trilogia
cosiddetta degli animali (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio). In
effetti il pretesto per il titolo all’interno del lungometraggio di Lucio Fulci
è abbastanza labile: si tratta di un’allucinazione di un hippy fatto di acido dalla testa ai piedi e quindi non
particolarmente connessa alla storia. E quindi il titolo può sembrare un po’
troppo gratuito e Una lucertola con la
pelle di donna rischia così di vedersi relegato nel filone delle opere
ispirate in modo un po’ troppo banalmente al primo cinema di Dario Argento. In realtà, è un dato di fatto che
Argento con la sua trilogia consacrò al grande pubblico il thriller all’italiana, declinando il giallo ad una intensità tale
da sconfinare spesso nell’horror: quel particolare equilibrio ha connotato un’importante
corrente del nostro cinema degli anni settanta, riconosciuta e giustamente
considerata anche a livello internazionale. Questi film avevano davvero una
forma in equilibrio, ibrida, non solo per le incursioni horror o addirittura splatter,
innestate su una trama tipicamente gialla, ma anche da un punto di vista
strutturale: abitualmente la logica dello sviluppo narrativo era considerata
nel giallo deduttivo un dogma
fondamentale, per sfidare lo spettatore a capire l’identità del colpevole, ma
il thriller all’italiana sovvertì questo precetto.
Gli autori italiani colsero
l’aspetto limitante della logica
realistica e se ne svincolarono potendo, a quel punto, dare il massimo sfogo
alla propria visionarietà. In questo senso prendono una certa attendibilità
anche i numerosi accostamenti al cinema di Alfred Hitchcock, che non
riguardarono solo Dario Argento ma che, ad esempio, furono usati per presentare
il precedente thriller di Fulci, Una
sull’altra. La frase di lancio recitava: “Questo film comincia dove Hitchcock finisce” e, al di là della
sparata promozionale, può essere davvero usata per riassumere alcuni
presupposti del thriller italiano dei primi anni 70.
Perché, se il geniale
regista inglese usava ogni sorta di trucco per presentare, agli occhi dello
spettatore, una visione della realtà perfettamente credibile, relegando quindi
gli artifici fuori dallo schermo, gli
autori italiani eliminarono questo tabù, come detto dando sfogo alla loro creatività
visionaria senza più limiti. Naturalmente il limite c’era, a questa soluzione,
ovvero che le incongruenze non fossero così pacchiane ed evidenti da
distogliere l’attenzione dello spettatore dalla vicenda; di contro, l’uso
sfrenato della fantasia psichedelica senza i vincoli imposti da una
sceneggiatura ferrea, permetteva di tenere vivo e concentrato l’interesse solo
sullo sviluppo della storia proprio grazie a quegli stratagemmi visivi.
In
questo senso Una lucertola con la pelle
di donna non solo è un degno rappresentante del giallo all’italiana dei settanta, ma lo stesso titolo, oltre
essere un esplicito riferimento ai suoi compagni di genere, diveniva anche programmatico, visto che si riferisce ad un trip allucinato dovuto alla droga. E
allora, se anche la coerenza narrativa più rigorosa viene meno, essa va intesa
come un dettaglio secondario e comunque va sempre messa sul piatto della
bilancia in confronto all’efficacia visionaria delle immagini. E su questo
aspetto Fulci dimostra di sapere il fatto suo, confezionando un film
formalmente di grandissimo impatto visivo, con numerose scene, in particolar
modo quelle degli incubi, veri o presunti che siano, della protagonista Carol
(Florinda Bolkan).
Curioso che il regista approfitti della trama per imbastire
un attacco bello e buono alla psicanalisi; peraltro è ipotizzabile che non sia
casuale visto la scarsa considerazione che Fulci ha sempre manifestato per la
disciplina di Sigmund Freud. Certamente un elemento in controtendenza rispetto
alla norma dei film sull’argomento, che spesso utilizzavano troppo semplicisticamente
i rimandi alla psicanalisi stessa. Buono nel suo complesso l’apporto tecnico:
dalla fotografia di Luigi Kuveiller alle musiche di Ennio Morricone, agli
effetti speciali di Carlo Rambaldi (sospesi tra il kitsch e il naif come da prassi del genere), all’ambientazione
che ci regala una Londra abbastanza convincente. Anche il cast è di notevole
livello: Jean Sorel è Frank, il marito di Carol, Leo Genn è invece il padre
della donna, Alberto de Mendoza e Stanley Baker sono i funzionari di polizia ma
è il comparto femminile ad avere, comprensibilmente e coerentemente con gli
stilemi del genere, più importanza. Oltre alla Bolkan, attrice bella e di
portamento elegante, da segnalare le notevoli Silvia Monti (Deborah, l’amante
di Frank) e Edy Gall (la figlia dello stesso uomo) e, per chiudere ma
assolutamente last but not least, il
personaggio della vittima dell’omicidio cardine della storia, ovvero la
strepitosa Anita Strindberg.
Ecco, se vogliamo trovare un neo alla pellicola è che la
bellissima Anita appare troppo fugacemente.
Florinda Bolkan
Edy Gall
Silvia Monti
Anita Strindberg
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