Translate

martedì 29 marzo 2022

ZOOTROPOLIS

994_ZOOTROPOLIS (Zootopia). Stati Uniti 2016;  Regia di Byron Howard e Rich Moore.

Acclamato da critica e pubblico, Zootropolis, cinquantacinquesimo Classico Disney, è effettivamente un vero capolavoro. La cura maniacale, l’estrema bravura, la competenza professionale, e chi più ne ha più ne metta, dello studio di Burbank è arcinota e capita di sovente di parlare di opere di alto livello, quando ci si accosta ai prodotti di animazione targati Disney. Tuttavia Zootropolis è talmente interessante che si potrebbe dire che sia un’eccezione in un mondo di eccezioni. Intanto, perché alla Disney consacrano la tendenza metalinguistica che spopola al cinema e che, evidentemente, hanno finito per sposare. Non è cosa da poco, nell’ambito della politica produttiva della casa di Topolino perché se storicamente si poteva dire che erano fiabe e favole ad ispirare i classici d’animazione, ancorando la filosofia dello studio alla tradizione centenaria della storia dell’umanità, ora si confermava quel trend già diffuso in altri lidi per cui il cinema, di cui l’animazione altro non è che una branchia, sembra bastare a sé stesso. Questa presa di coscienza era già arrivata a contagiare la Disney ma si concretizza forse in modo ancora più esplicito grazie a Zootropolis. Le citazioni e i rimandi filmici sono tantissimi, da Il Padrino a Breaking Bad, ma quello che stupisce è che il racconto decida di rispettare i codici del genere a cui si ascrive in modo sorprendentemente profondo e coerente. Quasi che questi siano più importanti del messaggio; il che, in un film formalmente per ragazzi, è quasi spiazzante. Tuttavia l’abilità degli autori, Byron Howard e Rich Moore, coadiuvati da Jared Bush, è tale che la funzione educativa dell’opera è tutt’altro che sacrificata, anzi; quello che si evince è che fare cinema istruttivo (cinema per imparare in modo più esplicito di quanto non lo sia sempre) non serva rivolgersi altrove ma si trovi in abbondanza tutto ciò di cui si ha bisogno all’interno della settima arte. E’ chiaro sin da subito che il film si inserisca nel genere crime movie; ci sono anche rimandi noir, ad esempio la cantante Gazelle (a cui presta la voce Shakira), dal ciuffo biondo stile Veronica Lake, o i giochi di luce e ombre ma tutto sommato questa deriva non è così approfondita. 

La differenza può sembrare sottile ma il noir, che cristallizzò i suoi stilemi negli anni 40, ha peculiarità molto precise, e forse un tantino troppo adulte (si pensi, per restare nel campo dell’animazione, a Jessica Rabbit), mentre per crime movie si intende un concetto più lasco (includendo lo stesso noir, per capirci). Storicamente, il cinema americano dedicato al crimine ha quasi sempre come sfondo la città metropolitana: come a dire che, nonostante il progresso e l’evoluzione, era proprio nei centri vitali della civiltà che si accentuavano le situazioni deviate. Zootopia, questo il vero appellativo della città al centro della vicenda (oltre che titolo originale del film), ci dà un indirizzo programmatico sin dal nome: una sorta di zoo utopistico, dove qualunque animale può essere quello che vuole e non essere costretto al ruolo che la natura gli ha imposto. Un vero e proprio Sogno Americano in versione per animali. L’utilizzo degli animali, da sempre nella narrativa, è utile per rendere maggiormente accessibile una storia al pubblico infantile, che prova naturale e istintiva empatia con queste creature. 

Ma Zootropolis ha anche un’ambientazione tipicamente cinematografica che ci dice, attraverso gli spettacolari scenari, che il cinema è ormai talmente importante, all’interno della storia dell’Umanità, che, per raccontare qualcosa, oggi è il riferimento migliore. Attenzione, non si tratta solo di illustrare una storia prendendo a modello il cinema, cosa nella quale i citati paesaggi in Computer Grafica di Zootropolis addirittura si superano, ma di impostare la struttura stessa del film nel suo profondo seguendo i codici cinematografici. Che non siamo propriamente in un classico film alla Disney, lo apprendiamo dalle parole del capitano di polizia Bogo, che dice esplicitamente alla coniglietta Judy, la protagonista della nostra storia, che non ci si trova in una di quelle storie in cui la principessa canta e i suoi sogni diventano realtà. Piuttosto, la vicenda è ricalcata, al di là dei tantissimi rimandi cinematografici sparsi a piene mani, sulla base de Il silenzio degli innocenti (1991, di Jonathan Demme), roba da far tremare i polsi. Ma, d’altra parte, se diciamo che abbiamo una protagonista, giovane, di sesso femminile, (e che in Zootropolis si chiama Judy, nome che riecheggia quello di Jodie Forster, l’attrice del film di Demme), che è un agente delle forze dell’ordine alle primissime armi, coinvolta in un’indagine in cui si deve combattere una violenza tanto aggressiva da divenire cannibale, abbiamo una descrizione che calza per entrambi gli esempi. 

Oltretutto, gli ovini, citati nel film di Demme (The silence of the lamb, questo il titolo originale) hanno un ruolo cruciale anche in Zootropolis, sebbene ribaltato (è pur sempre una sorta di parodia). Come detto Zootropolis è un film che trasuda cinema sin dalla sua architettura narrativa. La struttura circolare di molte storie poliziesche evidenzia simbolicamente da una parte l’impossibilità o la difficoltà (a seconda della prospettiva del racconto) ad uscire dai propri percorsi prestabiliti, dall’altra la necessità di un duro lavoro di ricerca, finendo per girare spesso in tondo allo snodo cruciale (attività per cui, ironicamente, si diceva che ai poliziotti venissero i piedi piatti). Questa struttura è pienamente rispettata dal film, tanto che la scena clou è anticipata dalla recita iniziale con un raffinatissimo multiplo gioco metalinguistico. Ma gli autori ci scherzano anche su, quando il capitano Bogo, in conclusione di tutto, finge di rimandare a dirigere il traffico la protagonista, come aveva fatto già fatto nelle fasi iniziali. 

Ma il rude capo della polizia sta solo scherzando perché la nostra coniglietta si è fatta valere risolvendo il caso e quindi non merita più di andare a fare le multe. In ogni caso abbiamo l’impressione di vedere e rivedere le stesse scene, come se si stesse appunto girando in tondo. Inoltre, il passaggio chiave che risolve la trama è un vero e proprio cliché del cinema giallo ed è oltretutto un’altra ripetizione, che rafforza la circolarità della struttura narrativa. La penna registratore a forma di carota era servita a Judy per costringere la volpe Nick, imbroglione da quattro soldi, a collaborare fornendole indicazioni e aiuto concreto. Sempre con questo stratagemma, in sostanza registrare di nascosto una sorta confessione, l’improvvisata coppia di protagonisti riesce ad incastrare il vero cattivo della storia, la pecora Bellwether, in un primo momento assistente del sindaco di Zootropolis e poi sindaco lei stessa in prima persona. Nel passaggio cruciale, quando Nick sembra essere stato colpito dal siero che risveglia gli istinti animaleschi dei predatori, la vita di Judy appare in pericolo. Ovviamente si tratta solo di capire quale sarà la soluzione narrativa che gli autori sceglieranno di adottare, non potendo certo morire una protagonista di un film per ragazzi come è pur sempre un classico Disney. Ad esempio si sarebbe potuto mostrare come Nick, il personaggio che nella storia compie l’evoluzione positiva dalla più ampia portata, fosse in grado di resistere all’influenza del filtro. 

Un modo per dimostrare come la forza di volontà possa essere superiore a qualsiasi causa perturbante; una soluzione in chiave etica, in un certo senso, che avrebbe fatto appello alla forza morale del personaggio. Gli autori di Zootropolis scelgono invece un profilo più basso, per risolvere il passaggio cruciale, ovvero il ricorso ad un banale espediente dei film gialli. Da un certo punto di vista, si sottolinea l’importanza del cinema (la soluzione è nei suoi codici), dall’altra si evidenzia, anche nel momento della vittoria, la vulnerabilità dell’individuo al cospetto delle insidie della metropoli (dal momento che ha bisogno di un trucco per cavarsela). Scelte mature e di natura pratica, forse poco poetiche nel senso classico del termine, specialmente se prendiamo la tradizione Disney. 

E stupisce anche il pragmatismo con cui gli autori evitano i tantissimi rischi di scivolare nel melenso politicamente corretto di stampo odierno, che una storia che affronta il tema del melting pot, per usare un’efficace definizione in voga anni fa, pone ad ogni risvolto. In fondo le parole di Judy ai giornalisti non sono necessariamente sbagliate, qualcosa nel loro DNA i predatori ce l’avranno anche, per avere quella determinata indole in natura. Divengono semplicemente inopportune se dette ai microfoni di una sala stampa, a corredo di un’indagine in cui alcuni predatori sono stati vittima di un siero che ne ha scatenato l’aggressività. Questo modo di ragionare per preconcetti, di cui perfino Judy è vittima e di cui si scusa in seguito con Nick, trova terreno fertilissimo nell’odierna società, dove ci scontriamo quotidianamente con persone di usi, costumi, idee, abitudini, attitudini, e tante alte cose diverse dalle nostre per cultura e tradizione e viene anche spontaneo non valutare chi ci sta di fronte per quello che è ma di partire già con un’idea precostituita. E contestare questo modo di pensare, il corsivo è d’obbligo perché di fatto si prende una posizione senza alcuna considerazione attinente, è la forma poetica molto concreta che permea Zootropolis. Tanta roba. 




Judy Hopps


Gazelle 

Nessun commento:

Posta un commento