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mercoledì 28 ottobre 2020

PASSAGGIO IN INDIA

657_PASSAGGIO IN INDIA (Passage to India). Stati Uniti, Regno Unito,1984. Regia di David Lean.

Dopo quattordici anni, il regista David Lean torna dietro la macchina da presa per girare Passaggio in India, un film tratto dall’omonimo romanzo di Edward Morgan Forster. La matrice letteraria pervade tutta l’opera e sembra evidente l’intenzione del regista di impressionare sulla pellicola i passaggi piuttosto delicati presenti nel libro; difficile dire se ci sia riuscito appieno. Il punto cruciale dell’opera, sia nella versione letteraria che cinematografica, è l’accusa di tentata violenza formulata da Adela (Judy Davis), una giovane donna inglese, contro un dottore indiano (il Dr. Aziz, interpretato da Victor Banerjee). Siamo in India, negli anni venti, in pieno colonialismo britannico. L’uomo aveva invitato la ragazza a visitare alcune grotte, in una zona montuosa; la stanchezza per il cammino in salita, per il sole, per il caldo, l’effetto straniante dentro la grotta dovuto ad un particolare eco… cos’era davvero successo? Il Dr. Aziz s’era assentato un attimo e la ragazza si era precipitata giù dalla montagna, ferendosi con le spine di un cactus: sanguinante aveva accusato l’uomo di averne attentato la virtù all’interno della grotta. Parlando del libro, non che in sé sia importante per l’analisi del film, l’autore sostiene che non si può sapere cosa sia realmente successo; semplicemente perché, allo scopo della riuscita del racconto, non lo si deve appunto sapere. Forse anche Lean prova a fare questo, ma se era il suo intento, non riesce ad essere convincente: ci sono momenti in cui il dubbio su Aziz può venire ma, guardando il film nel suo complesso, la sensazione che se ne ricava è la (quasi) certezza che Adela, vittima delle condizioni del momento, si sia immaginata tutto. 

Questo aspetto, come si diceva, non è tranciante, nella valutazione della pellicola perché essa è indipendente dal romanzo che ha ispirato il soggetto: sono due opere distinte che possono coesistere con le loro differenze. Però un aiuto ce lo dà, questo confronto: perché sembra una cartina tornasole dell’opera di David Lean autore, bravo, bravissimo nella messa in scena, ma forse mai realmente audace. Certamente rimanere col dubbio che Aziz si fosse azzardato sarebbe stato un po’ più disturbante, mentre in questo modo il tutto rientra nei ranghi di una classica storia di superficie, femminile e sofisticata, ma in realtà tutta protesa verso la pruderie per certi fatti sconvenienti

Alla fine, si ha un po’ l’impressione che regista e spettatori (o dovremmo dire spettatrici?) condividano l’atteggiamento di Mrs Callendar: la ricerca del brivido della morbosità. Piuttosto scialbe anche le scene del processo, il che è un fatto insolito in quanto in genere il dibattimento è sempre un momento coinvolgente nella realtà cinematografica. Una nota sicuramente positiva è l’ottica nella quale Lean inquadra la sua ricostruzione d’epoca: anche il regista di Lawrence d’Arabia ci ricorda di quanto la coloniale arroganza europea, e britannica in particolare, abbia appestato il mondo. Note di grande merito per le riprese, nelle quali Lean non ha assolutamente perso la capacità di produrre immagini spettacolari, siano esse di tipo naturalistico o coreografico. Ottima anche la colonna sonora per una confezione globale esteticamente degna di un moderno colossal.     



Judy Davis





 

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