Translate

martedì 22 ottobre 2019

MANTO NERO

430_MANTO NERO (Black Robe); Canada, Australia, Stati Uniti 1991Regia di Bruce Beresford.

Su uno dei manifesti originali di Black Robe la tagline recita: patch twice the punch of ‘Dance with wolves’! E’ quindi legittimata dagli stessi produttori del film Manto Nero, l’idea di ricercare in Balla coi lupi lo spunto di partenza dell’opera di Bruce Beresford. Perché è un’impressione forte quella che si avverte, e che viene a prescindere da quanto scritto sul poster, anche perché, ad esempio, su quello italiano non c’era alcun riferimento al film di Kevin Costner. Però, ad un anno di distanza, vedere ancora sullo schermo, in modo così significativo, gli indiani d’America, è un fatto che balza all’occhio, visto che era tempo che questo non accadeva. Ma sono evidenti anche alcune differenze: il film di Costner, pur se di un certo impatto realistico, aveva un respiro epico, una magniloquenza che celebrava degnamente (e finalmente) la cultura dei nativi in modo aperto e scoperto, senza scomodare sottotesti da interpretare o letture a diversi livelli. Ad onor del vero, va detto che il cinema di Hollywood era da tempo sostanzialmente filo-indiano, seppure l’intento portante era un altro; e questo sin dagli anni 50 del western classico ma, per una ragione o per l’altra, l’attenzione alle ragioni dei nativi presenti nei film di John Ford e compagni furono sostanzialmente ignorate. Basta riguardarli oggi (ma farlo, non andare a memoria), per rendersi conto di come la questione indiana fosse già al tempo trattata in modo equo dal cinema. In ogni caso, agli arbori degli anni novanta del XX secolo esisteva ancora, e non solo in America, la convinzione che il cinema hollywoodiano avesse bistrattato in modo eccessivo gli indiani (quando invece, furono più che altro la politica e la società americane a farlo). 

In quest’ottica, Balla coi lupi cercò di sanare il debito con gli indiani (e ci riuscì, almeno per quel che gli competeva), con una celebrazione che rendeva il giusto riconoscimento ad una cultura che andava assolutamente rimessa in posizione di massimo rispetto. Costner, per il suo film, prese come protagonista la nazione Sioux, che tra le popolazioni indiane era di quelle più affascinanti, per costumi e tradizioni; nel lungometraggio, per la prima volta, i dialoghi dei nativi erano nel loro vero linguaggio e moltissima cura fu prestata per le caratteristiche culturali dei pellerossa. 

Inevitabilmente, pur con tutta la buona volontà da parte di Costner di essere fedele alla realtà storica, tutta questa massa di buone intenzioni (chiamiamole così), finì per edulcorale alcuni aspetti della civiltà degli indiani che, per quanto rispettabile e certamente nel complesso piena zeppa di valori positivi, aveva anche un lato oscuro, selvaggio, anche un po’ primitivo. Ecco, in questo spazio (virtuale) che si crea tra quella che doveva essere la cruda realtà dell’America dei pellerossa e l’idea epica di Kevin Costner, si inserisce Manto Nero, come del resto esplicitato dalla citata tagline che vanta, per il film, una durezza doppia rispetto a Balla coi lupi. Il film è un curioso pastiche di provenienze autoriali: il regista Bruce Beresdorf è australiano, mentre soggetto e sceneggiatura sono di Brian Moore, scrittore nato in Irlanda del Nord e solo successivamente emigrato nel Canada dove è ambientata la nostra storia. Al centro del racconto c’è un gesuita francese (padre LaForgue, interpretato da Lothaire Bluteau), circondato da indiani, di ceppo algonchino e irochese,  prevalentemente ostili o comunque molto diffidenti. Il film si distingue, nel complesso, per una eccessiva durezza, sia sul piano violento che su quello sessuale, e lo spettatore è obbligato, come lo stesso gesuita del resto, ad assistere ad alcuni spettacoli decisamente pesanti, e anche un po’ gratuiti. 


D’accordo, si cercava di smascherare l’aura di epica, probabilmente poco realistica, che Balla coi lupi aveva lasciato in eredità, ma forse lo si poteva anche fare senza beccarsi la famigerata ‘R’ (per restricted, definizione che ne limita la visibilità; la versione americana del nostrano Vietato ai Minori). Il riferimento alle diverse origini geografiche degli autori può essere utile per cercare di capire quello che forse è il tentativo di universalizzare la questione indiana ridivenuta di attualità all’alba degli anni novanta. Con il suo essere molto fedele alle culture interessate dal film, il citato Balla coi lupi rischiava di essere interpretato come un testo specifico sui Sioux o al massimo sugli indiani delle praterie; oppure, in estrema istanza, riferito a tutte quante le tribù pellerossa degli States. Manto Nero non solo estende il discorso ai nativi del Canada attraverso la storia narrata ma, se consideriamo che il film che ricorda  maggiormente è Mission, (di Roland Joffé, 1986), ambientato tra gli indios del Sudamerica, allora si può intendere come una riflessione sui problemi della colonizzazione di tutto quanto il continente. 

E se a dirigerlo è un regista australiano, viene il sospetto che in suddetta riflessione possano venir interessati anche i problemi che hanno sofferto gli aborigeni dell’Oceania con l’arrivo anche là degli europei. La storia narrata è l’incursione nella natura selvaggia di un uomo di chiesa, peraltro molto pragmatico come tutti i gesuiti: ma padre LaForgue rappresenta soprattutto la civiltà di origine europea e il suo essere in quei territori completamente fuori luogo è il rovesciamento dei canoni di normalità e quindi di civiltà. Il prelato è fuoriposto sia in aperta natura, sia dentro la tenda, manufatto e concreto esempio della civiltà indigena americana. 
Il gesuita si perde nel bosco prima e, in seguito, è palesemente turbato per i rapporti sessuali dei suoi coinquilini dentro l’abitazione itinerante. Daniel (Aden Young), il giovane che l’accompagna insieme agli Algonchini, rivede presto i suoi intendimenti, a proposito di recarsi in Francia e seguire la via talare: a contatto con la natura, trova più ovvio, più normale, divenire algonchino; ad essere onesti anche per via della presenza di Annuka (Sandrine Holt). Chomina (August Schellenberg), il capo degli Algonchini lo ammette, perfino gli odiati Irochesi non sono uomini crudeli, sono gente normale, si comportano con la necessaria durezza in un ambiente spietato che non concede errori; ma per la verità, lo stesso indiano si rende conto, proprio in punto di morte, di non essere stato molto diverso da un comune uomo bianco. 

Tuttavia, l’atteggiamento di padre LaForgue, la sua attenzione a cose che agli occhi degli indiani paiono bizzarrie, è sottolineato più volte nei dialoghi tra i pellerossa come del tutto privo di senso. E proprio Chomina, mentre sente la vita sfuggirgli, rinuncia alla proposta di conversione, rivelando quanto sia vana l’opera del Manto Nero. Lo stesso gesuita si rende così conto, nel finale, dell’inefficacia del suo affannarsi nell’opera di conversione dei nativi, e il suo sconforto si avverte nella parole di commiato dai suoi ultimi compagni di viaggio, Daniel e Annuka. Raggiunta la missione ha il tempo di assistere alla morte del suo predecessore; a quel punto arrivano gli Uroni che, disperati per le febbri che falcidiando la loro popolazione, si sono decisi a convertirsi. 

Dietro questa decisione c’è la convinzione, da parte degli indigeni, che l’infezione sia stata portata dai bianchi come punizione per chi non si converte: cosa, almeno nella prima parte, probabilmente neppure troppo lontana dalla verità. Nonostante la perplessità di padre LaForgue, che auspicherebbe una comprensione dei valori cristiani prima della conversione, si potrebbe pensare comunque ad un mezzo successo, per l’opera dell’evangelizzazione dei nativi. Nella realtà storica, e una didascalia nel finale del film si premura di informacene, questa conversione al cristianesimo e la connessa alleanza con i francesi costò cara agli Uroni che furono sterminati dagli Irochesi, 15 anni dopo i fatti narrati. Insomma, non ci fu niente di epico nella colonizzazione, che non fu altro che uno scontro di civiltà, con più punti di contrasto che di incontro. Ma il regista sembra concludere con amara ironia, sottolineando come nel colonialismo ci fossero anche ‘buone intenzioni’: in effetti Manto Nero si chiude con la bellezza universale di un tramonto, con il sole che illumina il crocefisso della missione. L’estrema sintesi della nuova vita offerta ai pellerossa e a tutti i popoli colonizzati dagli europei: il martirio sulla terra, da vivere in prima persona.



Sandrine Holt




Nessun commento:

Posta un commento