426_IL BRIGANTE DI TACCA DEL LUPO ; Italia, 1952. Regia di Pietro Germi.
Capolavoro assoluto del cinema italiano, Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro
Germi è universalmente riconosciuto come una versione italiana dei western di
John Ford. Il paragone ci sta tutto, anche perché il lavoro di Germi in quel
senso è esplicito e particolareggiato. L’ambientazione nel mezzogiorno
italiano, la Lucania
presso Melfi per la precisione, è pietrosa, desertica ed assolata grosso modo
come il southwest americano; i
bersaglieri ricordano le giacche blu, mentre Amedeo Nazzari, splendido capitano
Giordani, è la nostrana versione di John Wayne; Raffa Raffa e i suoi briganti
possono benissimo essere assimilati agli apache di Geronimo in Ombre Rosse. E in questo senso va anche
lo straordinario commento musicale, opera di Carlo Rustichelli; insomma, Il brigante di Tacca del Lupo racconta
della conquista del sud, in chiave
western, con una evidente metafora alla conquista
del west celebrata in tanti film hollywoodiani. La regia di Germi regge il
confronto anche sul piano stilistico con i grandi classici americani: la
fotografia di Leonida Barboni, uno scintillante bianco e nero, è magnifica,
così come anche la capacità compositiva del regista, che trova sempre il modo
di sfruttare in modo mirabile lo spazio dello schermo. La sceneggiatura, tratta
da un racconto di Riccardo Bacchelli, e a cui collaborano Federico Fellini e
Tullio Pinelli, ha una struttura narrativa solida e sorregge tutto quanto il
lungometraggio. Insomma, da un punto di vista prettamente cinematografico, Il brigante di Tacca del Lupo è un film
eccellente, un vero capolavoro. Qualche dubbio nella critica in genere lo
lascia un presunto populismo con cui Pietro Germi tratta la questione meridionale.
Il regista
genovese è piuttosto sbrigativo: sembrerebbe risolvere tutto con l’intervento
dei militari. In realtà il suo discorso non è poi così grezzo: certo, Giordani
usa la forza, anche per incutere timore nelle popolazioni; un timore superiore,
almeno nelle intenzioni, a quello che la gente prova per Raffa Raffa e i suoi
briganti. Ma Giordani si rivela anche un uomo comprensivo, almeno nei confronti
dei civili, mentre coi suoi bersaglieri è, giustamente, molto più esigente.
Sono soldati, che diamine; il senso del dovere del capitano è encomiabile anche
se può sembrare un filo troppo fanatico. Ma è anche la situazione eccezionale a
richiedere uno sforzo superiore alla norma. In ogni caso Germi lascia il
passaggio decisivo, ovvero la localizzazione del rifugio dei briganti, alla
controparte meridionale del fronte dei buoni,
nella persona del commissario Siceli (l’ottimo Saro Urzì).
Un po’ come a dire
che l’Italia, come paese, deve dare il suo contributo in termini di impegno
(militare, in questo caso), ma la soluzione ai problemi locali può e deve
essere trovata solo dalle espressioni legali e civili del luogo. E questa
ribalta lasciata al mezzogiorno è
ribadita dal duello finale, in cui Carmine (Vincenzo Musolino) riscatta l’onore
di Zitamaria (Cosetta Greco) uccidendo in duello il temibile Raffa Raffa. Il
regista non manca di lanciare però un’ultima stoccata all’ideologia antica
diffusa in meridione, evidenziando l’inopportuno commento di Carmine nel
riabbracciare la stessa Zitamaria. L’uomo rimpiange infatti che la donna sia
stata lasciata in vita dal momento che è disonorata, e l’odiosità
dell’affermazione è messa in risalto dal contrasto con i festeggiamenti dei
bersaglieri che, al contrario, inneggiano agli sposi riuniti.
Tuttavia è anche
possibile che l’approccio alla questione
meridionale da parte di Germi sia stato un po’ semplicistico. Il punto,
nevralgico per comprendere la miopia della critica cinematografica italiana che
ha poi influenzato l’intero nostro movimento, è che quello di Germi è un film
d’avventura, un western addirittura. Se il cinema western americano è
comunemente accettato come utile strumento per raccontare in modo metaforico la
società americana, non è chiaro per quale motivo la stessa operazione sia
etichettata come populista se riguarda il nostro paese. Pare che per l’Italia
non si possa prescindere da un approccio realistico e quasi circospetto, in
ossequio alle difficoltà nell’analisi della società italiana.
Ma questo
potrebbe valere anche per la società americana, laddove, curiosamente, al
contrario ci sembra più consono accettare il cinema popolare come strumento di
analisi in ambito cinematografico. Questa difficoltà ad accettare il cinema popolare come modo di leggere la
nostra Storia, i nostri problemi sociali, in Italia ha portato al proliferare
del cinema impegnato, che molto
spesso ha avuto un approccio di maniera,
teso piuttosto a mistificare i problemi, con untuosa riverenza alle difficoltà
sociali certamente ardue ma mostrate spesso come praticamente insuperabili,
quasi a lisciare il pelo all’atavica pigrizia nazionale. Altro che populista;
Germi diceva le cose come stavano e come andavano dette. Aiutati, che Dio (o,
nel nostro caso, lo Stato) ti aiuta.
Cosetta Greco
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