431_KING KONG ; Stati Uniti 1933. Regia di Marion C. Cooper e Ersnt B. Schoedsack.
Caposaldo del cinema in senso assoluto, King Kong è un film che ha molti motivi di interesse, tra i quali
quello di interpretare il genere fantastico
nella sua completezza e in modo mirabile. Perfettamente bilanciato tra film
d’avventura e dell’orrore, incarnando così appieno lo spirito del genere fantastico, King Kong ha anche una vena romantica ma più che altro è una storia
di grande valenza simbolica. La struttura speculare su cui verte è infatti ben
calibrata, e permette una facile lettura del significato senza per altro
distogliere l’attenzione dal compito primario della pellicola, che è quello di
meravigliare. La meraviglia intesa nel film è quella primordiale, che crea una
sensazione di ammirazione nell’uomo, mentre nel contempo lo atterrisce anche un
poco perché mette in evidenza la minuscola (rispetto alla grandiosità della
manifestazione meravigliosa) condizione umana. La matrice metalinguistica
dell’opera è intrinseca: il cinema è l’arte che meglio di ogni altra può ambire
a produrre nello spettatore una moderna versione della Sindrome di Stendhal; quindi, in questo caso, la meraviglia nello
spettatore è raddoppiata, per il cinema come spettacolo da un lato e, nello
specifico, per il protagonista di questa storia, King Kong. E nel secondo caso, questa sensazione si traduce quasi
istantaneamente in terrore, essendo il primate gigante un soggetto piuttosto
pericoloso. Ma, considerato anche che lo spettacolo cinematografico ci mantiene
al sicuro al di qua dello schermo, si può tranquillamente affermare che, prima
di esserne spaventati, la gigantesca figura di Kong eserciti sul pubblico un
fascino notevole. E, questa sensazione, ben comunicata dal film di Cooper e
Schoedsack, è un altro aspetto del genere fantastico;
e l’attenzione al genere è un altro
dettaglio metalinguistico.
L’avventura è avvincente, c’è ritmo quando serve e
suspense in abbondanza: il compito di divertire è certamente assolto. Il tema,
ribadito anche nel film a più riprese proprio da Carl Denham (Robert Armstrong),
di professione regista e importante personaggio nella storia, è quello della bella e la bestia. Che il protagonista
della vicenda sia un regista e che il racconto narri proprio delle riprese di
un film, tolgono ogni possibile dubbio sul fatto che King Kong sia una pellicola che mette il cinema al centro del suo
obiettivo. Il nostro Denham vuole girare un film in un’isola dove pare vi sia
un mistero di grande fascino; ingaggia quindi una ragazza, la bellissima Ann
Darrow (Fay Wray, davvero splendida), non certo un’attrice professionista, e
parte con una nave alla volta della terra misteriosa. Gli sviluppi delle
vicende per la bella e per la bestia, sono simili: Denham si reca nella giungla cittadina, dove il muro di
indifferenza della metropoli tiene segregata dalla società la povera Ann.
L’ingaggio della ragazza avviene per trasformarla in un’esca per attirare
attenzione. La stessa sequenza viene poi ripetuta per Kong: nella giungla
dell’isola sperduta, tenuto separato dal villaggio da un alto muro, viene
catturato per finire a fungere da richiamo per gli spettatori di New York.
Queste due storie si intersecano a metà, essendo Ann l’esca per richiamare
Kong: la bestialità è quindi strettamente connessa alla bellezza, di cui si può
dire che sia l’altra faccia della medaglia. E parlando di bestialità non può
non essere evidente che ci si riferisca a quella umana: infatti nel film
abbondano i mostri, perlopiù dinosauri, ma il mostro per eccellenza della storia è King Kong. Il quale è una
sorta di gorilla, quindi un primate, ovvero qualcosa di fortemente imparentato
(certamente più dei dinosauri) con l’uomo.
C’era quindi la necessità, secondo
gli autori, di mettere al centro della storia una bestialità che fosse
condivisibile dall’uomo; diversamente si poteva usare come mostro protagonista del film, uno dei dinosauri presenti
nell’isola. Ma, ovviamente, lo scopo di mostrare il lato primordiale umano
serve a ribadire come sarà la bellezza, anch’essa in un certo senso primitiva, (nel
senso di assoluta e pura), a redimere la bestia,
e non tanto l’intelligenza. E questo non per disprezzo nei confronti
dell’intelletto umano, ma perché, almeno stando al film, questa altro non è che
un ulteriore aspetto della forza. Non
a caso è proprio l’intellettuale del gruppo (il regista) a vincere la bestia;
ma lo fa con uno scopo utilitaristico, speculativo, di sfruttare cioè il
mostro. Non può quindi essere questa la via dell’evoluzione, se si passa
semplicemente da un criterio di forza bruta per sopraffare gli altri, ad uno
che utilizza mezzi più sottili come l’intelligenza e l’astuzia per ottenere lo
stesso scopo. La bellezza femminile di Ann lavora invece in modo diverso,
instillando nella bestia la premura di non rovinarla: dopo gli inizi
nell’isola, forse eccessivamente focosi, Kong, pur se in modo un po’ rozzo,
cerca infatti di salvaguardare la salute ragazza e perde completamente le
staffe quando vede la giovane essere cinta in vita da un uomo, temendo per la
sua sorte. E’ questo, quindi, il ruolo della bella, smussare la bellicosità
della bestia. Azzardando una citazione in modo forse un po’ irriverente,
potremmo dire che la bellezza salverà il
mondo, laddove la bellezza potrebbe essere intesa anche quella dello
spettacolo cinematografico e non solo quella esibita dalla Wray.
Chissà, probabilmente, negli anni 30 del secolo scorso, poteva essere un
discorso valido.
E’ possibile crederlo ancora oggi?
Fay Wray
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