422_IL SIGNOR DIAVOLO ; Italia, 2019. Regia di Pupi Avati.
Si dice che a volte la memoria giochi brutti scherzi. In
qualche caso, questi scherzi possono
anche essere ben accetti. Ad esempio, potrebbe capitare di uscire soddisfatti,
pur con qualche perplessità, dal cinema dove si è appena visto Il signor Diavolo, ritorno al gotico del regista Pupi Avati. Se non
fosse che l’amico che ti ha accompagnato al cinema, a fronte del tuo generale
gradimento al film, ti ricordi della specie di prologo, dal sapore politico,
che in effetti sembra stonare un po’ con il resto della storia. E, a quel
punto, ripensando a quell’incipit, ecco che le vaghe perplessità, legate ad una
certa vena blasfema (l’ostia consacrata calpestata e quella data al verro) in
apparenza un po’ gratuita, prendono forma assai più concreta. Non ci voleva,
dannazione, perché il film è un bel horror,
con una storia che ondeggia tra La casa
dalle finestre che ridono (1976) e L’arcano
incantatore (1996), per citare due tra le precedenti incursioni di Avati
nel gotico. La prima scena è di
grande impatto, mentre il finale, lasciato in parte in sospensione, è
agghiacciante. In mezzo una storia allucinata, un’indagine dai contorni
sfumati; d’altra parte assistiamo alla lettura di un resoconto di un
interrogatorio, dove il piccolo Carlo (Filippo Franchini) è chiamato a rendere
conto dell’assassinio di Emilio (Lorenzo Salvatori). La scelta di Avati di
metterci a conoscenza degli eventi cruciali della vicenda, attraverso un simile
travaso comunicativo non è casuale: la testimonianza passa dal giovanissimo
imputato agli inquirenti, viene trascritta, poi viene letta da Furio Momenté
(Gabriel Lo Giudice), funzionario del Ministero
di Grazia e Giustizia, e infine arriva a noi.
Il regista sottolinea,
quindi, la soggettività di un simile resoconto, che non si può certo definire,
in senso strettamente cinematografico, di
prima mano; e, in effetti, si rivelerà ben poco attendibile. Da questo
punto di vista il film di Avati è certamente intrigante, così come per
l’ambientazione che rinverdisce il mito del gotico
padano, sottogenere di cui il regista nato a Bologna è il maestro
indiscusso. Si diceva delle perplessità che, guardando il film, possono venire nel
veder attaccata così duramente l’istituzione della Chiesa. Non che la religione
debba godere di speciale protezione, sia chiaro, ma la critica di Avati non
lascia scampo: il sacerdote che interrompe la funzione scandalizzato per quello
che è solo un piccolo incidente e incolpa con eccessiva durezza lo sfortunato
Paolino, le suore che credono nei sortilegi con approccio superstizioso, gli
esorcismi a cui pare sia stato sottoposto il povero Emilio, reo soltanto di
essere deforme, perfino Gino (Gianni Gavina) il sagrestano, è un personaggio
negativo. Dal suo film la
Chiesa sembra essere l’incarnazione del Male assoluto; e pare un filo eccessivo. Come eccessive possono
anche sembrare le scene citate delle ostie; specialmente quella in cui il corpo di Cristo viene dato da mangiare
al maiale maschio, il Signor Diavolo
del titolo.
Una scena che ricorda un po’, almeno come gusto gratuitamente
sacrilego, la famosa sequenza del crocifisso in L’esorcista (1973, regia di William Friedkin). Detto che quello di
Friedkin nel complesso è un capolavoro horror, giova ricordare che siamo nel
2019 e non più agli inizi dei settanta. L’attacco ad alzo zero alla chiesa di Avati lascia un po’ attoniti anche
perché la stessa comunità rurale non sembra avere alcun anticorpo, ma è
altrettanto intrisa di questa indole malsana; ma fin qui ci potrebbe stare. Tuttavia
Avati non ha ancora finito, tutt’altro: alcuni flashback nella memoria di Furio, che è estraneo all’ambiente in
cui è ambientata la malata vicenda, rivelano un’esperienza dolorosa vissuta in
famiglia da parte del giovane, con il padre che lo rinchiudeva ancora bambino
da solo al buio per punizione. Una condizione che non è solo ricordo, ma anche
premonizione, a testimonianza dell’ottimismo
che grava sul film: in protagonista finirà infatti chiuso nell’oscurità della
cripta nel terrificante finale. In qualche modo, anche la famiglia sembra
essere quindi oggetto di severa critica, da parte di Avati, e quindi le
istituzioni prese di mira dal regista diventano due: religione e famiglia,
appunto.
E qui arriva il ricordo dell’incipit politico, che poi, a ben vedere,
è il perno di tutta la questione: il partito cattolico di governo (la Democrazia Cristiana )
vuole evitare uno scandalo, in quanto il delitto sembra essere legato ad un
evidente caso di superstizione religiosa, e quindi invia un suo funzionario,
Furio, per cercare di insabbiare la cosa. Uno, due e tre: Dio, patria e famiglia, recitava un motto contestato dalla
rivoluzione sessantottina, e allora viene un dubbio (piuttosto forte, in
verità) che Avati si sia lasciato prendere dalla nostalgia non solo per il
gotico padano di La casa dalle finestre
che ridono, ma anche dalla verve politica del tempo. Ma la cosa, oggi, ha
il sapore di una ruffianata nostalgica e niente più: ha senso, adesso, nel
2019, mettere sotto accusa le suore e le loro eventuali eccessive manie rituali?
Ha ancora senso incolpare la chiesa di interferire con il potere politico, è
questo il nostro problema oggi?
Massì, la chiesa ha ancora il suo peso, non si
discute, ma davvero si può credere che sia il suo operato che ci sta creando i
guasti sociali che ci attanagliano? Certo, la storia di Avati è ambientata
negli anni cinquanta e certamente al tempo potevano essere quelli i temi da
mettere sul tavolo, ma cinquant’anni dopo il sessantotto il ruolo della chiesa,
pur se molto influente, è assai diminuito e abbiamo fonti di condizionamento molto
più contingenti e pericolose. Il ritorno all’horror di Pupi Avati è di sicuro
una lieta novella, ma se ripescare il gotico padano è anche lo scopo di
distogliere l’attenzione dai problemi attuali, inseguendo le misere polemiche
dei minuscoli interpreti politici di oggi, si svilisce il ruolo del cinema. E, pur se a malincuore, si può anche arrivare a dire che se
rivedere all’opera Avati nel suo terreno migliore diviene il pretesto per mettere
sottilmente sul banco degli imputati quei colpevoli che potevano essere buoni
cinquant’anni fa, allora ne faremmo anche a meno.
Chiara Caselli
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