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martedì 8 ottobre 2019

IL SIGNOR DIAVOLO

422_IL SIGNOR DIAVOLO ; Italia, 2019Regia di Pupi Avati.

Si dice che a volte la memoria giochi brutti scherzi. In qualche caso, questi scherzi possono anche essere ben accetti. Ad esempio, potrebbe capitare di uscire soddisfatti, pur con qualche perplessità, dal cinema dove si è appena visto Il signor Diavolo, ritorno al gotico del regista Pupi Avati. Se non fosse che l’amico che ti ha accompagnato al cinema, a fronte del tuo generale gradimento al film, ti ricordi della specie di prologo, dal sapore politico, che in effetti sembra stonare un po’ con il resto della storia. E, a quel punto, ripensando a quell’incipit, ecco che le vaghe perplessità, legate ad una certa vena blasfema (l’ostia consacrata calpestata e quella data al verro) in apparenza un po’ gratuita, prendono forma assai più concreta. Non ci voleva, dannazione, perché il film è un bel horror, con una storia che ondeggia tra La casa dalle finestre che ridono (1976) e L’arcano incantatore (1996), per citare due tra le precedenti incursioni di Avati nel gotico. La prima scena è di grande impatto, mentre il finale, lasciato in parte in sospensione, è agghiacciante. In mezzo una storia allucinata, un’indagine dai contorni sfumati; d’altra parte assistiamo alla lettura di un resoconto di un interrogatorio, dove il piccolo Carlo (Filippo Franchini) è chiamato a rendere conto dell’assassinio di Emilio (Lorenzo Salvatori). La scelta di Avati di metterci a conoscenza degli eventi cruciali della vicenda, attraverso un simile travaso comunicativo non è casuale: la testimonianza passa dal giovanissimo imputato agli inquirenti, viene trascritta, poi viene letta da Furio Momenté (Gabriel Lo Giudice), funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia, e infine arriva a noi. 

Il regista sottolinea, quindi, la soggettività di un simile resoconto, che non si può certo definire, in senso strettamente cinematografico, di prima mano; e, in effetti, si rivelerà ben poco attendibile. Da questo punto di vista il film di Avati è certamente intrigante, così come per l’ambientazione che rinverdisce il mito del gotico padano, sottogenere di cui il regista nato a Bologna è il maestro indiscusso. Si diceva delle perplessità che, guardando il film, possono venire nel veder attaccata così duramente l’istituzione della Chiesa. Non che la religione debba godere di speciale protezione, sia chiaro, ma la critica di Avati non lascia scampo: il sacerdote che interrompe la funzione scandalizzato per quello che è solo un piccolo incidente e incolpa con eccessiva durezza lo sfortunato Paolino, le suore che credono nei sortilegi con approccio superstizioso, gli esorcismi a cui pare sia stato sottoposto il povero Emilio, reo soltanto di essere deforme, perfino Gino (Gianni Gavina) il sagrestano, è un personaggio negativo. Dal suo film la Chiesa sembra essere l’incarnazione del Male assoluto; e pare un filo eccessivo. Come eccessive possono anche sembrare le scene citate delle ostie; specialmente quella in cui il corpo di Cristo viene dato da mangiare al maiale maschio, il Signor Diavolo del titolo. 


Una scena che ricorda un po’, almeno come gusto gratuitamente sacrilego, la famosa sequenza del crocifisso in L’esorcista (1973, regia di William Friedkin). Detto che quello di Friedkin nel complesso è un capolavoro horror, giova ricordare che siamo nel 2019 e non più agli inizi dei settanta. L’attacco ad alzo zero alla chiesa di Avati lascia un po’ attoniti anche perché la stessa comunità rurale non sembra avere alcun anticorpo, ma è altrettanto intrisa di questa indole malsana; ma fin qui ci potrebbe stare. Tuttavia Avati non ha ancora finito, tutt’altro: alcuni flashback nella memoria di Furio, che è estraneo all’ambiente in cui è ambientata la malata vicenda, rivelano un’esperienza dolorosa vissuta in famiglia da parte del giovane, con il padre che lo rinchiudeva ancora bambino da solo al buio per punizione. Una condizione che non è solo ricordo, ma anche premonizione, a testimonianza dell’ottimismo che grava sul film: in protagonista finirà infatti chiuso nell’oscurità della cripta nel terrificante finale. In qualche modo, anche la famiglia sembra essere quindi oggetto di severa critica, da parte di Avati, e quindi le istituzioni prese di mira dal regista diventano due: religione e famiglia, appunto. 


E qui arriva il ricordo dell’incipit politico, che poi, a ben vedere, è il perno di tutta la questione: il partito cattolico di governo (la Democrazia Cristiana) vuole evitare uno scandalo, in quanto il delitto sembra essere legato ad un evidente caso di superstizione religiosa, e quindi invia un suo funzionario, Furio, per cercare di insabbiare la cosa. Uno, due e tre: Dio, patria e famiglia, recitava un motto contestato dalla rivoluzione sessantottina, e allora viene un dubbio (piuttosto forte, in verità) che Avati si sia lasciato prendere dalla nostalgia non solo per il gotico padano di La casa dalle finestre che ridono, ma anche dalla verve politica del tempo. Ma la cosa, oggi, ha il sapore di una ruffianata nostalgica e niente più: ha senso, adesso, nel 2019, mettere sotto accusa le suore e le loro eventuali eccessive manie rituali? Ha ancora senso incolpare la chiesa di interferire con il potere politico, è questo il nostro problema oggi? 


Massì, la chiesa ha ancora il suo peso, non si discute, ma davvero si può credere che sia il suo operato che ci sta creando i guasti sociali che ci attanagliano? Certo, la storia di Avati è ambientata negli anni cinquanta e certamente al tempo potevano essere quelli i temi da mettere sul tavolo, ma cinquant’anni dopo il sessantotto il ruolo della chiesa, pur se molto influente, è assai diminuito e abbiamo fonti di condizionamento molto più contingenti e pericolose. Il ritorno all’horror di Pupi Avati è di sicuro una lieta novella, ma se ripescare il gotico padano è anche lo scopo di distogliere l’attenzione dai problemi attuali, inseguendo le misere polemiche dei minuscoli interpreti politici di oggi, si svilisce il ruolo del cinema. E, pur se a malincuore, si può anche arrivare a dire che se rivedere all’opera Avati nel suo terreno migliore diviene il pretesto per mettere sottilmente sul banco degli imputati quei colpevoli che potevano essere buoni cinquant’anni fa, allora ne faremmo anche a meno.     






Chiara Caselli


  

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