202_QUELLO CHE NON SO DI LEI (D'après une histoire vraie). Francia, Belgio, Polonia 2017; Regia di Roman Polanski.
Da sempre il cinema ha nella letteratura il suo modello
principale di riferimento: tantissimi i film che hanno alla base un libro, come
del resto anche questo Quello che non so
di lei di Roman Polanski, tratto dal romanzo Da una storia vera di Delphine de Vigan. Lo stesso Polanski ha già
messo uno scrittore al centro della sua opera: nel recente L’uomo nell’ombra ma anche in precedenza, come in Luna di Fiele. Nel caso di Quello che non so di lei, la declinazione
al femminile, si racconta infatti di una scrittrice, non deve depistare,
essendo l’attrice protagonista del film Emanuelle Seigner (nei panni di
Delphine Dayrieux, autrice di romanzi di successo), che del regista è la moglie
oltre che interprete preferita (sono al quinto film insieme). C’è quindi,
presumibilmente, un po’ di Polanski nella figura della scrittrice stanca,
svuotata, svogliata, protagonista di Quello
che non so di lei. Forse il regista polacco è meno stressato e più
annoiato, conoscendone almeno un poco il carattere; e l’eco di questa sua
presumibile crisi creativa si avverte nel suo ultimo film. L’eco, perché poi, evidentemente, quando
Polanski deve aver incontrato il suo personale ghost writers interiore, che è in sostanza quello che accade alla
protagonista del suo film, allora la storia carbura,
e il mago di Lodz mette in scena
alcuni passaggi memorabili, anche grazie alla magistrale prova di Eva Green nei
panni di Lei (Elle nel francese originale). Il tema del film è dichiarato in
modo esplicito dal contrasto tra la scrittrice Deplhine, affermatasi con una
storia autobiografica ma che è al lavoro ora su di un’opera di pura finzione, e
Lei, una ragazza incontrata casualmente che di mestiere fa la ghost writer, ovvero scrive biografie o
cose simili per conto di personaggi famosi.
Quest’ultima è un’ammiratrice di
Delphine, e tra le due si instaura un rapporto che ricorda, in troppi passaggi,
quello tra lo scrittore/James Caan e la fan/Kathy Bates, in Misery non deve morire: pur con il
rovesciamento delle pretese del lettore nei confronti dell’autore. In questo
caso, infatti, Lei non vuole una storia di svago, ma esorta invece l’autrice a
scavare ancora più a fondo dentro se stessa, per portare alla luce il suo romanzo nascosto. Insomma, quello che si
chiede Polanski è: devo girare film che attingano al mio intimo più personale,
oppure storie di genere, per
soddisfare il grande pubblico?
Il regista è sempre un uomo di genio, anche
quando il suo cinema sembra stentare un poco: la soluzione che trova a questo
dilemma è il cortocircuito tra le due opzioni, ovvero dirigere un film che
prende via via le caratteristiche del thriller psicologico, e quindi di genere, d’evasione, imbastito però su
una storia in cui un’autrice combatte i propri fantasmi interiori sulla propria
vocazione autoriale. Il tema del doppio è sviluppato in modo semplice ed
evidente, forse anche troppo, ma perché in un certo senso è una falsa pista, un
miraggio. Ancora una volta, in Polanki, il disagio arriva dall’interno: cosa ci
può portare alla rovina, il nostro doppio, il nostro riflesso fantasma, o il nostro romanzo nascosto che non vogliamo portare
alla luce?
Quando Delphine apre la botola della cantina, già menomata alla
gamba, sembra davvero scendere ad affrontare i propri demoni interiori, con ben
poche chance di riuscita. Ma non saranno i topi lovecraftiani ad attentare alla sua vita, bensì proprio il veleno
comprato per uccidere quei roditori. Dove si nasconde, allora, il pericolo, e
dove la salvezza?
Nel finale si ripete la scena con cui si è aperto il film,
con Delphine intenta ad autografare il suo ultimo successo letterario. Stavolta
non sembra, però, stanca e sciupata come l’inizio, ma acconciatura e trucco
perfetti la fanno sembrare addirittura Lei. In precedenza era stata invece la ghost writer, il suo doppio, ad adeguare il proprio aspetto,
imitando Delphine per prenderne il posto. Ora la situazione si è ribaltata:
l’autrice assume quindi il ruolo della propria metà oscura, per poter scrivere senza prosciugare la propria anima.
E’ forse questa forma di cinismo creativo che ha lasciato
qualcuno perplesso nell’ultimo film di Roman Polanski?
Eva Green
Emmanuelle Seigner
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