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venerdì 31 agosto 2018

QUANDO LA CITTA' DORME

201_QUANDO LA CITTA' DORME (While the city sleeps). Stati Uniti 1956;  Regia di Fritz Lang.

 A guardarlo in modo un po’ distratto, Quando la città dorme può anche passare per un onesto giallo spruzzato di noir d’epoca; in realtà è il manifesto funereo con cui il sublime maestro Fritz Lang si congeda dall’America, più che dal cinema americano. Si, certo, dopo questo film dirigerà L’alibi era perfetto, il cui risultato sarà però un po’ troppo inficiato dalla postproduzione che massacrerà la pellicola in sala di montaggio. Inoltre, in L’alibi era perfetto, Lang azzardava una trama piuttosto elaborata, interessante, certo, e poggiata su uno spunto geniale, ma Quando la città dorme nella sua semplicità di base, risulta più efficace per mostrare senza alcuna via di scampo, sullo schermo, le magagne della società americana. In effetti, alcuni passaggi narrativi della storia appaiono un po’ troppo semplicistici: dalla lettura psicanalitica del criminale, alla coincidenza del pianerottolo su cui si affacciano le porte di due appartamenti cruciali nella vicenda. Ma non è l’intreccio giallo che interessa a Lang, o meglio la sua verosimiglianza; per lui è solo un meccanismo da innescare e che, nel suo sviluppo, metterà a nudo il degrado morale della società americana in quello che è il suo cuore. C’è un omicida, il giovane Robert Manners (John Drew Barrymore), che uccide giovani donne, e lascia una traccia, una scritta col rossetto (“chiedi alla mamma” ) o un albo a fumetti, sul luogo del delitto.

Ad indagare, non tanto la polizia guidata dal tenente Kaufman (Howard Duff) ma tutta quanta la Kyne, una holding giornalistica che stampa il quotidiano New York Sentinel oltre ad avere un’agenzia di notizie, una fotografica e a produrre una rubrica televisiva. Insomma, la Kyne gestisce l’informazione a 360° e viene messa in campo in modo completo dal regista austriaco proprio perché il problema sollevato da Quando la città dorme, non è un aspetto specifico ma riguarda tutto quanto il settore. Un settore nevralgico, nel paese della libertà, perché manifesta, proprio con il suo esistere, operare, la libera espressione. E la critica di Lang risulta quindi particolarmente pesante, nel momento in cui è estesa a tutta quanta la struttura della holding.

Come dire che lo speculare sull’informazione di massa sia un fatto intrinseco nella radice stessa della libertà di stampa, che invece viene sempre considerata come una delle anime pulite su cui si fonda la stessa America. Alla morte di Amos Kyne, il figlio Walter eredita l’impero delle comunicazioni Kyne: ad interpretarlo è chiamato Vincent Price che, se nel 1956 non è ancora divenuto quell’ambigua icona cinematografica universalmente riconosciuta, in passato ha già avuto ruoli di malvagio in alcuni film e non è certo una presenza scenica che ispiri grande fiducia. Sotto di lui, ma comunque ai vertici dell’organizzazione Kyne, ci sono quattro personaggi, tre dei quali messi dallo stesso proprietario in gara tra loro per diventare Direttore Generale. C’è Mark Loving, direttore dell’Agenzia di notizie, a cui presta le sembianze George Sanders, che è anch’esso un attore dall’aspetto un po’ equivoco, sempre sorridente, amichevole (amabile verrebbe da dire, pensando al cognome del personaggio del film), ma che sembra sempre pronto a cogliere qualsiasi opportunità, lecita o meno, a proprio vantaggio. John Griffith è a capo del giornale, il NY Sentinel, e l’onestà che si specchia nella figura di Thomas Mitchell, ci da qualche garanzia; in seguito, apprendiamo che per via della moglie malata e della famiglia da mantenere, anch’egli non può farsi troppi scrupoli. L’agenzia fotografica è gestita da Harry Kritzer, un bellimbusto piuttosto evanescente che deve il suo aspetto a James Craig: sembra fuorigioco ma lavora sottotraccia, tenendosi un asso (e che asso) nella manica.
Chiude il quartetto il giornalista che si occupa della striscia serale televisiva, Edward Mobley, interpretato da un Dana Andrew che ha (o meglio avrebbe) tutte le carte in regola per recitare il ruolo del classico eroe americano, anche perché non coinvolto direttamente nella bagarre per conquistare il posto da Direttore Generale. Per spronare ulteriormente i tre uomini alla competizione per accaparrarsi tale impiego, Walter Kyne promette l’incarico a chi scoprirà l’identità dell’assassino del rossetto (come è stato battezzato Manners): la caccia al clamoroso scoop giornalistico mette gli uomini uno contro l’altro, senza troppi riguardi. Ma, a questo punto, subentrano in gioco altri tre elementi che saranno decisivi, sia nell’indagine che nella nomina a Direttore Generale, mantenendo per altro il livello dei colpi sempre sotto la cintura, a testimonianza che l’arrivismo nella società americana non risparmia nemmeno l’altra metà del cielo. Entrano in scena infatti le donne, con ruoli nient’affatto di secondo piano, sebbene in apparenza questa possa essere l’impressione: la prima che si nota sullo schermo è Nancy Ligget (una Sally Forrest carina e compunta) segretaria di Loving e fidanzata di Mobley.

La poverina è un po’ in balia degli eventi, sia per l’amore per Mobley, che si rivela tipo niente affatto affidabile, sia per i guai in cui proprio lui la infila, usandola come esca per smascherare l’assassino del rossetto. Mildred Donner (una vorace e ancora avvenente Ida Lupino) è una giornalista di gossip, che flirta con Loving, ma che seduce facilmente, aiutata dall’alcol, un deludente Mobley, per ottenerne la collaborazione e agevolare lo stesso Loving nella corsa alla carica di Direttore Generale. Chiude il tris di donne l’elemento cardine di tutto il sistema: Dorothy Kyne (una spettacolare Rhonda Fleming), moglie di Walter, amante di Kritzer, apparentemente bella e stupida, ma in realtà in grado di gestire i suoi due uomini a piacimento. Sarà soltanto un caso fortuito che manderà all’aria, sul filo di lana, i piani delle bellissima Dorothy, impedendo a Kritzer di accaparrarsi la carica di Direttore Generale; ma l’escamotage narrativo in cui apprendiamo che gli intenti della donna sono stati vanificati, sembra più che altro un aggiustamento posticcio per lenire un po’ il quadro generale: un lieto fine volutamente poco credibile. In ogni caso, come si vede, tutto questo intreccio verte sulla volontà di fare carriera degli uomini, e se le donne non sono coinvolte direttamente nella corsa a Direttore Generale, hanno comunque il loro bel daffare ad accaparrarsi la posizione migliore; i sentimenti sono decisamente messi in secondo piano.

E la lotta al criminale sembra quasi divenire addirittura un mero pretesto, una scusa per vendere più copie, avere più ascolti o, in questo caso, ottenere l’impiego tanto agognato. Vedendo questi personaggi, non solo sembra quasi più umano di loro l’assassino che, pur con le sue debolezze, è soltanto un disperato, ma si rimpiange anche il tribunale dei criminali di M- Il mostro di Dusseldorf, che nel finale del film tedesco di Lang giudicavano l’omicida delle bambine interpretato da Peter Lorre. I componenti di quel fantomatico tribunale non erano certo stinchi di santo, e nemmeno erano animati da buoni propositi: il loro sembrava un moto più che altro di opportunismo, perché il mostro di Dusseldorf rovinava loro la piazza, agitando la polizia e l’opinione pubblica. Ma gli individui all’opera in Quando la città dorme sembrano anche peggio: eleganti, istruiti, si spacciano per paladini della libertà ma potrebbero benissimo mettere in piedi una distilleria di cinismo.

Cinismo che, al contrario, è del tutto estraneo alla poetica di Fritz Lang: il suo sguardo lucido e implacabile riguarda sempre le situazioni, i comportamenti, ma mai il lato umano dei suoi personaggi, verso i quali il grande autore ha sempre rispetto quando non una sorta di umana comprensione. Come già il mostro di Dusseldorf, anche nei confronti di Manners non c’è certo una giustificazione, ma uno sguardo che, se ne mette in risalto senza sconti l’abietto e criminale comportamento, da un punto di vista umano non esita a riconoscerne la condizione disperata. Lo stesso sguardo, che è la cifra morale del grandissimo autore austriaco, è riservato ai cinici protagonisti della Kyne: in fondo, Mobley, pur essendo un ubriacone donnaiolo, è semplicemente un debole; e la stessa Mildred, che lo seduce in modo subdolo, lo fa per poter stare a galla, così come si è già detto delle giustificazioni sociali di Griffith. Certo, ci sono persone migliori di altre, così come si fatica a scorgere qualcosa di buono in Walter Kyne, ma nel complesso, se il comportamento dei personaggi della vicenda è certamente riprovevole, non possiamo dire che siano tutte persone connotate completamente in modo negativo.

Alla fine Fritz Lang, e essendo il penultimo film americano possiamo ben donde dire “alla fine”, rovescia il concetto classico dell’eroe americano: si è sempre detto che il campione, il protagonista del Nuovo Mondo è l’uomo normale che in condizioni eccezionali, si comporta in modo eccezionale. Ecco, Lang capisce che in America troppo spesso quelle condizioni sono eccezionali, ma in senso negativo, e l’uomo della strada si ergerà si sopra la media, ma in sintonia con l’ambiente. La competizione, la lotta per emergere, l’arrivismo, non producono eroi alla John Wayne, ma più facilmente, personaggi servili e opportunistici alla Harry Kritzer, burattini nelle subdole mani di altri.
Il sogno americano, in realtà, è solo il riflesso del sogno di qualcun altro.


Sally Forrest


Ida Lupino



Rhonda Fleming










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