203_BORG McENROE . Svezia, Danimarca, Finlandia 2017; Regia di Janus Metz.
L’importanza del periodo intorno ai primi anni 80 appare
oggi fondamentale, non fosse altro perché per molte persone ancora in vita (per
fortuna, nda), rappresenta la
gioventù e, quindi, anche solo per il conosciuto e deformante effetto nostalgia, viene ricordato come una
sorta di età dell’oro. E’ però vero che si trattava di un momento storico
cruciale: ci si andava lasciando dietro il decennio tribolato seguente alla
rivoluzione sessantottina, e ci si trovava all’alba dei famigerati, ma anche
seducenti, eighties. Cosa c’entra
tutto ciò con Borg McEnroe, il film
di Janus Metz? Beh, mai, come in quegli anni, anche le rivalità sportive (come
anche Lauda vs Hunt ripreso da Ron Howard con il recente Rush), in genere strettamente legate all’ambito degli appassionati,
diventavano, grazie soprattutto alla TV, eventi di portata collettiva a livello
mondiale. Oggi, quando ci sono i mondiali di calcio si fermano intere nazioni
davanti agli schermi e allora la cosa può sembrare scontata, ma all’epoca non
era proprio così. I tennisti che avevano vinto a Wimbledon prima di Borg, in
Italia, li conoscevano in pochi: forse Jimmy Connors aveva un minimo di
notorietà, ma tra gli appassionati. Bjorn Borg, pur essendo svedese, lo
conoscevano tutti, anche in Italia. E in effetti sembrano ancora divagazioni:
che c’entrano, con il film di Metz? C’entrano, perché un film che porta sullo
schermo la quinta affermazione del campione svedese a Wimbledon, alla fine di
un’epica battaglia contro il fumantino e funambolico John McEnroe, affronta un
evento di tale portata, mediatica ma soprattutto emotiva, passionale, che al
regista basterebbe mettere in scena le immagini delle partite per cavarci un
film memorabile. Almeno per quegli spettatori che vissero quell’indimenticabile
stagione.
Ma ovviamente (e per fortuna) non è il metodo scelto dal
regista danese, non solo perché c’è chi al tempo non c’era ma, soprattutto,
perché un film deve avere una sua autonomia. In ogni caso un po’ di
quell’effetto Metz cerca giustamente di ricrearlo, sullo schermo, alimentandone
allo stesso tempo la sua opera; tutto sommato con buona riuscita. Il mito di
Bjorn Borg rivive così nelle immagini che portano il giovanissimo tennista
svedese ad imparare a contenere la propria indole insubordinata, diventando il
più glaciale dei giocatori, almeno negli effetti sul campo. In realtà lo sforzo
mentale del tennista è immenso e, per poterlo reggere, l’uomo Bjorn Borg quasi
si snatura, finendo per assomigliare davvero a quella macchina a cui i
giornalisti sportivi lo paragonano vedendolo giocare.
Ma nel film l’aspetto sportivo è secondario; in effetti, McEnroe, che
è solo un giocatore di tennis
(d’accordo, straordinario, indisciplinato, geniale, quello che si vuole, ma solo un giocatore di tennis) nel film non
è che lo sparring partner di Borg,
anche se il titolo è Borg McEnroe.
C’è un motivo, ovviamente, anche se, in prima istanza sembra una
contraddizione: perché, oltre al taglio del racconto, anche il tempo sullo
schermo dello svedese è molto maggiore rispetto a quello dell’americano. Ma
questo perché Borg, con quel suo look (curatissimo) da hippy fintamente
trasandato, coi capelli lunghi fermati dalla famosa fascia, la barba furbamente
incolta, sempre marchiato e sponsorizzato nelle sue eleganti divise sportive,
era il perfetto Caronte per
traghettarci dagli anni 70 al decennio successivo, edonista e modaiolo.
E anche
la sua ossessione antisportiva per la
vittoria, sarebbe stata la perfetta sintesi della filosofia degli anni 80: antisportiva, si, perché la lezione più
importante dello sport è che bisogna accettare la sconfitta, cosa che lo
svedese non farà quando si ritirerà all’indomani della finale persa a
Wimbledon, con McEnroe, l’anno successivo agli eventi narrati in questo film.
Per questo il titolo Borg McEnroe è
in parte una falsa traccia, perché avrebbe un senso semplice, chiaro,
esplicito, se la storia narrata occupasse le due edizioni del torneo inglese,
1980 e 1981, in
cui lo svedese e l’americano si affrontarono. Invece
l’opera di Metz si ferma alla prima finale tra i due, quella che sancisce la
gloria eterna per Borg; è lui il dio del tennis, quello che non poteva perdere.
John McEnroe era solo uno dei tanti ragazzi che volevano primeggiare e che, a
differenza di Borg, non perse mai, al netto delle sue proverbiali intemperanze,
il suo spirito sportivo. Per questo il ragazzo newyorkese merita di condividere
l’onore del titolo, perché si confrontò con il dio del tennis, faccia faccia,
senza perdere la propria umana genuinità.
Quella
che ormai non aveva più da tempo Bjorn Borg e che, negli anni a venire,
avrebbero perso in tanti.
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